giovedì 27 febbraio 2014

potrei perdere il treno


una possibilità. vorrei solo una possibilità per scegliere, anziché essere scelta. ché scegliere è una roba da coraggiosi, non da passivi. e dicono che questo non sia un mondo per gli indolenti.
non c’è posto per chi subisce. per gli astigmatismi, le asimmetrie, le rotture, per chi rimanda a domani, rallenta, ferma la sua corsa verso la gloria, magari solo per respirare l’odore intenso della mimosa, che è già sbocciata (povero mediocre). mentre io continuo a credere che chi corre proprio non se ne sia accorto che è sbocciata, perché il più delle volte guarda in basso, o al limite diritto, ma mai intorno, né tantomeno verso l’alto!
una possibilità, vorrei. per essere efficiente e sempre sul pezzo, mai caotica e disordinata, mai dimentica dei fatti e dei film visti e dei ti ricordi e dei testi delle canzoni. vorrei ricordare tutto, pure quel rimosso e quel maledetto raschiato via per sempre, pure il bene fatto e ricevuto, pure i torti inflitti, pure tutto, pure tutti, anziché ritrovarmi con la testa che mi rimbomba tra le dita, immemore e leggermente sbiadita.
ché qui non c’è posto davvero per chi si perde. per chi si smarrisce, subisce le lacerazioni del dolore dentro le ossa e si rinchiude in fondo a se stesso, per chi sprofonda nella consolazione di litri di alcol, nei quali affoga la propria anima, vendendola ai suoi demoni, per chi rinuncia al dono della vita, schiodandosi le vene dai polsi.
non è un mondo per questi perdenti. qui si corre verso il successo e basta. ma non il participio passato di succedere, che accade a tutti e a ciascuno in modo differente e personale e senza giudizio, no! successo come affermazione e trionfo, come rincorsa ad ogni costo. a d o g n i c o s t o. 
il treno aspetta tutti, fino all’ora prestabilita. ed è quella, secondo più, secondo meno, ma spacca il minuto, quello sì. che se ci fosse scritto alle 15.45, quello partirebbe a quarantacinque e se io mi fossi allontanata un istante, per guardare la mimosa e scattarle una foto già fatta e già vecchia, quello se ne sarebbe bello che andato, senza di me. alla mimosa, sì, perché amo il suo aroma fanciullo e la forza di quel giallo piumato.
una possibilità per tutti, invece. ecco, questa mi piacerebbe. pure per chi non si ritrova o corre claudicando o mette in pausa il proprio affanno. e che nessuno lo giudichi, grazie, ché nessuno può sapere cosa si nasconda dietro quello stordimento, se non lo stordito di turno.
una possibilità per scegliere, per avere il coraggio di escludere, per gioire dell’inclusione e fare festa e così via, senza rimpianti e senza la paura di aver scelto male, che diventa colpa e brucia nello stomaco.
allora potrei prendere al volo questo treno delle scelte, dicevo, e salire in cima al carro di chi si sente sempre vincitore, di chi è convinto di vivere nella ragione e mai nel torto, della maggioranza che parla di cosa sia giusto e cosa non lo sia affatto.
oppure potrei restare qui. potrei rimanere a scattare un’altra foto a questa mimosa piena di profumi nascosti e ancestrali, che nulla sa del giusto e dei vincitori. magari dal basso verso l’alto, inquadrando una fetta di cielo, o incollando l’obiettivo a questi chicchi carichi di colore, sfocando il contorno e dando risalto al loro centro, oppure mettendoci pure il mio viso e sentendomi per pochi istanti mimosa anch’io.
potrei tapparmi le orecchie di fronte al chiasso delle voci prepotenti degli altri, ecco, e restarmene qui.
sì, potrei perdere il treno.

bi
  
 
[ph. kylli sparre]

e,
per un momento sarò infinita
più che bella, astratta
altamente piccola, rinvangata
inestinguibile e ardua
moderata esplosiva e vana
fiduciosa e sfiduciata
oscura quasi accecata
modellata rumorosa stanca
più che gioiosa, contemporanea
perennemente fine, accompagnata
provocatrice e tanta
unica molteplice e pungente
placida e placcata
chiara quasi perfezionata
divina vociatrice ristrutturata

così sarò,
per un momento e poi,
andrò.
 
[dopo, di maria a. listur]

mercoledì 26 febbraio 2014

Risvegli












Si dipana la nebbia
e la luce si sparge nel solaio
bussa ai nostri sogni bianchi
si sveglia il giorno
e dai miei occhi s'accende
la fessura del mattino
s'incarna nei tuoi respiri
ti sfiora la luce
poi scivola via
comincia a camminare
tu la segui lievemente
e accompagnandola
girandola di colori
cominci a danzare
nel giorno






giovedì 20 febbraio 2014

mi sto abituando al poliestere


 
"e se nessuno ti parla, allora ti tocca pensare.
e io non facevo altro, allora.
pensavo tanto che mi faceva male la gola,
perché è li che si fermano le tristezze".
stefano benni, la grammatica di dio
 
 
mi sto abituando al poliestere. forse, o forse no. ad ogni modo io non desidero abituarmici, o forse un po’ sì, non lo so. è che questa non è certo una buona notizia, ché alla merda uno non si dovrebbe mai abituare e il poliestere e l’acrilico sono robe schifosissime, che fanno molto male.
mi scoppiò all’improvviso, così, un giorno. era tipo uno tsunami, che cominciò a deturpare la mia pelle innocente dalle cosce e dal collo. un rossore inibito, che voleva crescere presto e diventare adulto.
avevo ventiquattro anni, ero quindi piuttosto fatta, ma la mia pelle era ancora acerba e stava maturando così, a forza di vampate incandescenti.  
intanto io mi grattavo. sentivo un fuoco che mi attraversava su e giù per i vasi sanguigni e intimoriva ancora di più la mia pelle tanto emotiva. mi riempivo di crema, eppure non facevo in tempo a stenderla che già il prurito tornava ad ossessionarmi le dita.
una volta mi ricoverarono. i dermatologi sono una razza strana, sembrano come degli alieni arretrati alla preistoria, genti con le sembianze moderne e una mente da trogloditi, piene di bui e di non lo sappiamo.
entravano al mattino ed erano tipo sei, sette, impettiti in quei camici bianchi e occhialuti fino ai capelli. mi facevano alzare in piedi, togliere il mio pigiama grigio e cominciavano a squadrare la geografia dei disegni che avevo sul corpo. segnavano appunti sui loro taccuini asettici e se ne andavano, dopo essersi consultati con termini un po’ del cazzo.
per me nessuna attenzione. per me non sapevano usare alcuna parola premurosa, che potesse restituirmi, anche solo per pochi istanti, l’angolo d’un sorriso, che sembrava perso per sempre.  
un’altra volta mi portarono in un laboratorio, per farmi una biopsia. mi spogliai e i due dermatologi davanti a me sgranarono gli occhi, come se avessero visto un non so che. meraviglioso!, esclamò uno dei due.
rabbrividii. disse proprio meraviglioso, mentre io avrei voluto agganciargli la faccia per sbattergliela contro la luce al neon, che regnava in alto a noi come un sole nero. maledetto, maledetti! pensai con gli occhi umidi.
i dermatologi sono così, esseri senza sentimenti e pieni di merda da analizzare in vitro. genti che provano un orgasmo, nel momento in cui riescono a dare un nome al disegno che hai sulla pelle. e il disegno è tuo, la pelle pure, invece la trattano come fosse roba loro.
ad un tratto uno dei due disse che andavano fotografate, quelle bolle, che andava costruita una letteratura, in grado di risolvere i problemi sulle pelli di tutti gli esseri viventi. mi si fermò il cuore per qualche attimo. ma era già tardi e non mi uscirono le parole per oppormi e gridargli NO!
restai in silenzio, mentre loro scattavano delle foto su alcuni quadrati della mia pelle. le lacrime uscirono da sole, non ce la feci a tenerle per me. mi sentii umiliata. loro, due medici, mi stavano umiliando.
un’altra volta ancora non volevo più tornarci in quel posto funesto, con quei vampiri a caccia di sorsi di soddisfazione. fu la mia amica ad impormelo, anche se ero certa che non servisse e che stessimo facendo l’ennesima cazzata. perché mai tornarci? mi avrebbero come al solito infagottato la pelle di cortisone e rilasciato con la solita etichetta: dermatite atopica. (idioti).
ci andammo lo stesso. davanti all’ennesimo dermatologo, piena di stizza e protetta alle spalle dalla mia amica, mi spogliai. pianse lei, questa volta. in fondo mi ero assuefatta alle bolle e una più o una meno o una gigante o una più piccola o una moltiplicata ed elevata a infinito non facevano più differenza ai miei occhi stanchi.
capii che mi aspettava un altro ricovero. il terzo. inutile. tormentato. ingiusto. odioso. e intanto mi sentivo di parlare una lingua inascoltata e incompresa da tutti, anche da chi mi stava accanto in silenzio e m’amava.
un’altra volta ancora era una donna. mi guardò amorevole (mai nessun medico fino ad allora lo aveva ancora fatto) e mi chiese di sedermi e di raccontarle cosa fosse accaduto nella mia vita negli ultimi anni. la mia pelle gridava qualcosa che io tacevo, così disse. m’imbottì di cortisone per bocca e, finita la cura di tre settimane, le bolle tornarono più forti di prima.
poi incontrai lui. un’anima eletta tra le anime, un medico ottantenne, che mi prese per mano ed in brevissimo tempo mi spalancò la porta della guarigione. per sempre.
lui è ancora nel mio cuore, dei precedenti non ricordo neanche la puzza. mi insegnò che la medicina è una statistica, non una scienza esatta, e sperimentai proprio sulla mia pelle che la medicina alternativa fosse un’alternativa salvifica e che quella tradizionale avesse gli stessi limiti che pongono le religioni nelle vite umane (le religioni e i loro dogmi, non le preghiere, dico).
la mia pelle ha una coscienza a sé, rispetto a me. lei sa che il suo compito è di separarmi dal mondo. lei fa da confine, da zona liminare, da interstizio, da pellicola, da protezione e lo fa emozionandosi profondamente. e oggi gode di ottima salute.
mi sto abituando al poliestere. forse, o forse no. ad ogni modo io faccio finta di niente.

bi
 
 
[ph. rebecca cairns, reality]
 
 

martedì 18 febbraio 2014

la toscana è una moltiplicazione


la toscana è una moltiplicazione di pavimenti inclinati, che scivolano verso un centro nascosto pieno di storie. i vicoli vi si assecondano e vi girano come agevoli labirinti, le voci vi si attorcigliano e creano accenti spirati di spiriti.
occorre tornarci in toscana. di tanto in tanto,nel tempo, per recuperare spazio per gli occhi e aria per i polmoni. e non una volta ogni diec’anni, no. di più, dico. per ritrovare le giuste priorità di se stessi.
la mia è il verde, lo so, e lì mi ci sono affogata. l’ho bevuto a più non posso, per fare il pieno di quel velluto spalmato sulle colline. come fossero tutte uguali, eppure mai le stesse.
la mia è l’amore, pure, e lì ti pervade, da fondere il due con l’altro, in un uno sempre più unito e disunito solo nelle membra.
è un’addizione di torri, che regnano nei secoli e vegliano cittadini mai stanchi. questi, proprio loro, che si sporcano le mani ogni giorno con la loro tant’amata terra, che penetra fin dentro le loro unghie larghe come piazze. infilzano radici che cresceranno come cipressi e lì pareranno trapezi di campi arati dai venti lontani provenienti da tutti i dove. lì sorveglieranno vigneti tenaci e verticali e ulivi gentili e silenziosi.
l’abbiamo sentiti coi nostri occhi e visti con le nostre orecchie. lì, in quelle valli difese da dolci colline. lì, in quei paesi impietriti e pieni di vita pulsante e pronti ad accoglierci tutti. tutti noi, visitatori curiosi e sì tanto affascinati.
è una sottrazione di sospiri. da coprirsi la bocca con ambo le mani per lo stupore che lascia senza altra espressione vocale oltre a un sospiro, gridato con la o. con tante o, una di fila all’altra (ooooooooooooh!). di curve, che s’attorcigliano alle colline e si stringono nel ventre in un vortice di emozione. di verditudine, che sale rapida come la saliva a riempire il palato e baciare la lingua. di riflessi, che si specchiano nelle acque e fanno da prisma ai cotti delle case in pietra. di scorci, che s’aprono improvvisi e appena accennati.
parla un’altra lingua, la toscana. una lingua né parlata, né scritta, ma solo sussurrata e fatta di sentimenti taciuti ai sensi animaleschi.
è il sapore del mosto a dirtelo, quello che ti resta ancorato in bocca, dopo che hai sorseggiato quel vino rubino, che sa di aratro, di foglie lussureggianti, di frutti scarlatti, di legni porosi e muffe riposte in cantina. di tortini di verdure affondate nella vellutata di pecorino, salumi mangiati per strada, cene piene di sguardi infiniti.    
è una divisione, la toscana, una divisione d’intenti. delle sue mani che si preoccupano di avvolgere le mie spalle infreddolite sotto le coperte, delle sue rose rosse, del suo pensiero per me fatto di carne e non più soltanto pensato. è condivisione di un amore, che si vuole sentire sparso per il mondo, anche in toscana dunque, per ritrovarsi sempre più integro e amato.  
la toscana è una moltiplicazione che sa di me e di te.

bi
 
 
[ph. bi]
 

«se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove non fui mai».

giorgio caproni, stringendo

giovedì 13 febbraio 2014

mai dire pranzetto


mai dire pranzetto, se non arrivo umidiccia e con la sciarpa ciondoloni (e fuori ci sono appena diciassette gradi il dodici febbraio), all’una e dieci e al solito posto, dove loro due sono lì, sorridenti, ad aspettarmi. e si alzano per baciarmi tutta e stringermi ai loro dolcissimi spiriti e ai maglioni scuri e ai colli scoperti.
mai dire pranzetto se non mi siedo piena di fretta e già con il menù alla mano, per scegliere entro poco il mio pranzo veloce con loro.
sono bellissime, come sempre. ci versiamo l’acqua liscia dalla brocca trasparente e cominciamo subito ad incrociare i nostri aggiornamenti sulla vita trascorsa negli ultimi giorni che ci hanno diviso.
a. è stata a vedere timi a teatro, quel gran pezzo di scrittore e attore così tanto anti-eroe sturm und drang-hiano (mi si passi questa licenza piuttosto schifosa, ma tant’è) e lo ha pure aspettato fuori dopo lo spettacolo, solo per annusarlo e vedere la sua aura che scia disegnasse nell’etere. lilla, sfumata di argento, così ha detto.
r. ha il colon infiammato e bisticcia con il menù ricco di premi e cotillons, di cui il suo palato non potrà beneficiare in alcun modo, manco annusando i piatti delle altre, che le sfileranno fieri sotto le narici.
- prendo la pasta in bianco, me la puoi far fare in bianco? con un filo d’olio e basta. ah, niente parmigiano, né pepe, ché proprio non posso… e dopo una verdura. lessa. verde, eh? a foglia larga, che hai?
è perplesso, il cameriere, di quelle facce perplesse viste e riviste, che si ripropongono ad ogni pranzo e ad ogni cena e ad ogni roba che si mangia e che si deve per forza ordinare, perché non stiamo a casa.
- va bene la bieta?
sgrano gli occhi. no, dico io, la bieta non aiuta la colite, anzi… deflagra negli intestini di tutti gli esseri non alieni, quindi m’aspetto un secco no dei suoi.
- si, dai, lessa e senza condimento. anzi il limone sì, il resto no.
perplesso scrive un papiro tipo tema nel suo taccuino, che mi fa una tenerezza paurosa. va be’.
a. prende la pasta al pesto e basta, ché è braverrima e rispetta meticolosamente la regola del non-si-mischiano-carboidrati-e-proteine.
quand’è il mio turno mi sento lievemente a disagio. mi caratterizza una fame famelica, da natale trapassato remoto, di quelle che la sera mi fustigherei con due gatti a nove code (che fa diciotto, quindi una bella tortura), e davanti a quel menù colorato, in fila per sei con tutte robe da urlo in letto di fantasticherei tremende, bene: mi prende un colpo.
scelgo due cose, ché una proprio no (mi rifiuto!) e continuiamo a chiacchierare, mentre perplesso si ritira in cucina con un bignami di robe nostre da pranzetto.
torniamo a timi e alla sua recitazione celestiale, alle sue parole nel libro che ha scritto e al suo fare così umano, sì, così tanto umano, alla sua bellezza, che obiettivamente straripa ovunque, al suo sguardo che genere plurimi campi magnetici ed al suo prossimo show a teatro.
torniamo alla colite e alle maledizioni che l’accompagnano perpetue, alle paste bianche e malate e alle verdure no, mai più, almeno fino a venerdì e al tacchino per forza proprio.
torniamo al mio maglione di lana che pesa una settantina di chili e che ho deciso di mettere proprio il dodici febbraio, perché è inverno, pure se fuori dice che ci sono diciassette gradi e un sole tiepido ed insicuro.
arriva la pasta. quella malata e quella in salute verde pesto. e la mia vellutata di zucca con lo speck e i crostini di pane. mi sembrava il paradiso, cioè se esistesse questo cavolo di paradiso, avrebbe di certo il pranzetto con le mie amiche del cuore e la vellutata di zucca.
torna perplesso, con la sua faccetta da bravo ragazzo piena di sorriso, e presenta un piatto con una mozzarella in carrozza, larga come una pizza margherita.
- questa era per…?
chiede.
- mia!
rispondo come se poi la mozzarella si trasformi in zucca e scappi via entro mezzanotte…
la fame famelica, no? l’avevo detto.
ridono. a. e r. mi guardano come se non mangiassi dalle guerre puniche e tutto diventa un riso generale, mentre io assalgo il piatto pieno di pranzetto.
torna perplesso.
- e questo era per…?
- no, questo è di nessuno.
eh no, è il mio! è il finocchio con l’arancia, cavolo, l’unica roba degna di essere chiamata cosa-sana tra le mie pietanze barbariche.
è tutto un ridere, questa volta più forte. perché mangio come una famiglia di quattro persone, da sola. perché loro mi amano e si vede da come brillano i loro occhi pieni di luccichini e fulmini benevoli. perché non puoi dire pranzetto se una di noi manca o va via prima. perché io sono una donna fortunata ad avere, oltre alla vellutata di zucca, due anime gentili e piene di immensità nella mia vita.

mai dire pranzetto, se non ci sono le mie amatissime a. e r.

bi


[immagine tratta da internet]

martedì 11 febbraio 2014

#come


come le fronde sempre uguali a se stesse ballano col vento a favore e si rispecchiano sui vetri di fronte, spezzandosi senza ritorno.

come le ombre allungate dei pomeriggi corti di febbraio si coricano sui muri a quadri, del colore dell’oro caldo, nei bordi della piazza che vocifera.

e il muschio s’aggrappa con insolita ferocia al selciato che calpesti alla cieca, mentre rincasi.

come il lievito solleva pani e dolci mai fermi e ammorbidisce i loro intestini dentro alle croste.

come gli archi svuotano le mura incessanti dei palazzi antichi.

e le braccia delle madri novelle s’aggrappano alla vita dei figli appena germogliati.

come la musica solleva le memorie celate nei ventricoli bui dei cuori ansimanti.

come le vigne ruzzolano altere per le colline inverdite.

e i canti dei monasteri si levano solenni e discreti, distanti dalle strade che corrono e ululano.

come i cieli scorrono rapidi e i mari s’infrangono disuguali e i tetti si coprono silenziosi.

come le soglie s’aprono verso al di là anonimi e stranieri.

e i portoni si serrano come tuoni di tempesta.

come i lampioni s’infiammano serali e prevedibili.

come le piogge si riversano nelle terre, inondandole di esistenza che scorre.

e gli amanti si coniugano come verbi pieni di gerundi che agiscono.

come le lacrime rigano e disegnano fratture vermiglie.

come le pagine del libro si schiudono serali in cima ai cuscini calpestati da teste colme di desideri.

e i boschi di avvitano ai loro segreti mai pronunciati e pieni di oblii.

come le panchine si fanno compagnia e le nonne cuociono ferratelle pregando ave marie e i fiumi evaporano al passaggio degli amanti incandescenti e le amiche si legano in un abbraccio senza fini e gli occhi si perdono dentro panorami vivi e i pensieri generano destini appena pronunciati e le giostre incastrano le parole sorridenti dei bambini e le morti frantumano i corpi lasciando vivi gli spiriti.

così io m’immergo nei nostri labirinti, delicatamente.    
 
bi
 
[dipinto di vladimir volegov]
 

giovedì 6 febbraio 2014

ci vediamo alle nove


c’è lei e c’è il suo stupido cappotto. lungo fin sotto al ginocchio e del colore timido del miele appena nato di giugno. tenero, vellutato, se lo passa sotto i polpastrelli increspati dall’inverno che lo accarezzano, lisciandolo perbene e con compiacimento.  
un po’ stretto, quel copricapo, quasi a stringerle le costole l’un l’altra. l’aria buia le taglia il viso di traverso, ecco perché si stringe a morte addosso a se stessa, e sbuffa, sbuffa umidità dalla bocca.
si annoia ad aspettarlo, si annoia tutte le volte che lo aspetta. e l’attesa è sempre la sua, mai degli altri. è piena di fissazioni di arrivare puntuale, di partire un’ora prima, di imbattersi nelle code del traffico serale, di non volersi presentare lì davanti piena d’affanno e col naso che coli. in anticipo, si muove per tempo e giunge a destinazione a pochi minuti dall’orario stabilito.
lui non c’è. s’è sciolta i capelli e li ha lasciati senza riga, nel vano un tentativo di sembrare scompigliata e un po’ improvvisata, invece la linea sparpagliata l’ha sistemata prima di scendere dalla macchina, voltando su di sé lo specchietto retrovisore.
profuma di sandalo e rose e ha negli occhi le pagliuzze giallastre che scintillano ad ogni riverbero. capace di sfondare un muro quella luce intensa, accesa sul viso di sbieco e piuttosto scostante. e ignora lo sguardo di chiunque si trovi a passarle nei pressi, lo trapassa con quel bagliore fulmineo delle pupille per non incendiarlo, per non incenerirgli il corpo - ché ne sarebbe capace, eccome.
tralascia tutti e cerca solo la sagoma di lui. si regge altera in cima a quei tacchi impervi, come una fiera piena di zanne e ruggiti soffocati dentro, pronti ad esplodere.
è in compagnia della colonna, sulla quale ha adagiato la spalla sinistra per la noia dell’attesa, ed entrambe stanno lì, sostenendosi con reciprocità di cosa viva e cosa morta e scambiandosi atomi di pesantezza.
il vento le sposta i capelli, facendoli restare impressi sulle labbra lucidate di color carne. i minuti si succedono distratti, mentre lei non perde una figura che s’affacci di fronte al suo orizzonte.
ancora la sua non c’è, ma lei sa che non tarderà ad arrivare. freme nella bocca dello stomaco dalle prime ore del pomeriggio, sapendolo suo per l’intera serata, e continua a contorcersi dentro, mentre si sottrae ai suoi pensieri per accendersi una sigaretta.
smucina di fretta nella borsa senza fine, ricordando che fossero sulla sinistra le sigarette, non nel fondo o dentro una tasca, proprio nell’angolo a sinistra dove le aveva insaccate per ritrovarle al primo tentativo.
la accende finalmente e torna a perdersi in quelle linee d’ombra del parcheggio. non arriva. l’attesa trepida, consuma i suoi sospiri di tabacco velocemente. gli odori della città e della sospensione del tempo si fondono con la nube di sandalo e rosa che la avvolgono e che le sono rimasti intrisi nella sciarpa.
si stringe ancora addosso a se stessa. il gelo la costringe a ritrarsi e a ripiegare le spalle su di sé, abbassando nervosamente gli occhi.
non c’è. lui non c’è. c’è lei e c’è il suo stupido cappotto miele ad aspettarlo. lui non c’è e non verrà. capita sempre così alla fine e quello che deve succedere non accade mai.
se ne tornano a casa, lei, la sua scia femminile e solitaria, quell’attesa smorzata dalle gelide illuminazioni del parcheggio e il desiderio profondo di incontrare, presto - finalmente - quell’uomo che la inviti a vedersi. alle nove. puntuali.   

bi



[immagine di amy judd]



"il pomeriggio è il tempo intermedio.
coloro che amano non hanno il coraggio di annunciarsi.
coloro che sono amati si fanno aspettare.
l’attesa dilata innaturale le sedie,
schiaccia il telefono come un’alta temperatura,
i muri divengono pneumatici, tanto che invano
ci sbatti la testa, nessun dolore ti risveglia;
l’universo intero è anestetizzato".
 
nina cassian, l’arte dell’attesa