mercoledì 24 dicembre 2014

presente


mi sono nutrita del ripieno gustoso di persone care, quest’anno. mi sono beata della loro presenza nella vita mia, mi sono guardata allo specchio coi loro occhi e mi sono vista bella e forte. le ringrazio, ad una ad una, offrendo loro il mio profilo stanco ma tenace.

ho collezionato parole e silenzi. parole che mi hanno dato luce, silenzi che mi hanno amato e avvolto nel loro abbraccio senza fine.

ho pianto una sola volta, sufficiente e copiosa. ho pregato e scritto desideri per tutti. ho visto arcobaleni con più di sette colori, sognato luoghi impervi e abitati da luci pastello. ho abbracciato vivi e morti e ho incontrato la piccola me, bianca e piena di larghi sorrisi.

mi sono emozionata, stancata, agitata, affannata, accudita, mai pentita, specchiata negli alberi. ho amato, litigato, urlato, sbattuto, essiccato, gioito, corso, preso, salito, bevuto, riso, sceso, costruito, lasciato, carezzato, baciato, inumidito, donato, scritto, pensato, sentito dolore, accolto, spinto, visto, ascoltato, toccato, annusato.

ho varcato soglie, messo radici, tolto peli nell’uovo, cancellato puntini sulle i, affrontato partenze e ritorni, assistito a nascite e morti, asciugato lacrime, augurato il bene, amato la solitudine, dato il benvenuto alla malinconia, fatto piccole magie, bevuto piogge, abbandonato vecchi assoluti.

ho dormito tra le lenzuola ricamate a mano da mia madre, mentre le sue dita adolescenti e precise mi hanno cullato per tutta la notte. mi sono chiusa a riccio per diventare castagna. ho seguito ogni giorno la luna e l’ho fatta mia.

ho operato sottrazioni e addizioni, ho comprato quaderni. sono andata in giro a spalancare finestre e a liberare insetti dall'agonia del loro bacio ipnotizzato sul vetro.

ho tirato via maschere, selezionato anime, sezionato le mie viscere. ho scritto meno, ho studiato poco, ho perdonato e ho dato spazio all’essere.

ho voluto scrivere oggi perché dicembre era vuoto e la colpa è ancora un sentimento che mi scortica la pelle.

ho scritto la parola presente per sedermici sopra, imparare di più e meglio e apparecchiare per due.

 
buona ri/nascita, buon natale del cuore.
bi


[ph. home]

lunedì 24 novembre 2014

diversamente est


sei andato a scuola e ti hanno detto 'siedi al tuo posto'
e già li hai smesso di credere che il tuo posto sia dappertutto”
(silvano agosti)

 


sono da frutto quegli alberi.
il mattino sorge sulla destra ventilata e fresca ed i fiori si muovono in ordine sparso sulla sinistra rumorosa e ingiallita, proprio lì dove il sole si cala di nascosto e dipinge di ocra rosato la vetta di fronte.
è l’est.
dove il buio regna sulle bocche piene di canti degli animali selvatici.  
ogni volta c'è un dove ad attendermi, sai?
che freme e vibra di sentimento e lo sento da qui.
allora io mi raccolgo tutta e mi preparo a spiccare il volo verso il mio levante interiore.
è che non ci vivo, purtroppo.
abito in un altrove diverso da est.
lì la durezza della montagna partorisce generosa creature divine, vestite di un rosa deciso ed orgoglioso, profumate di tempo e di un inverno selvaggio e bianco.
è un'orchidea montana, mi disse un giorno.
ed io la guardai senza fiato: non era alta neppure come un mignolo.
ogni angolo mette in mostra le rovine di eterne estati trapassate e le siepi di cipresso narrano le storie di eroine di tramonti randagi.
vivo la condanna di abitare l’ovest e di vedermi di fronte ogni sera la morte del sole, che mai trova consolazione.
ecco perché viaggio piena di panorami nelle tasche.
per infilarci le mani e diventare albero.
poi foresta.
poi collina.
poi vetta.
poi cieli liberati e dirupi pieni d'aria.
per buttare gli occhi nelle finestre semichiuse e guardarmi ogni tanto in fondo alle budella.
il mondo non è lineare, ma è pieno di circolarità e lì ce l’hai nelle vene.
l’est è quello delle nascite e degli inizi.
è il mio naufragio.
la mia terra di mezzo.
l’aria che mi sospende e mi concede il volo.
la libertà del mio corpo di respirare.
la libertà dell’anima mia di sentirsi a casa con la porta aperta.
 
bi

[hiroshige utagawa]
 
 
 

mercoledì 12 novembre 2014

come fanno ad amarla

come fanno ad amarla se lei non si ama? li vede i suoi occhi ripiegati all’ingiù? ecco, sono il segnale che lei si rivolge fuori se stessa e mai dentro. mai dentro.

si è sposata per felicitare gli altri, fosse stato per lei neanche si sarebbe inchiodata a quel modo. basta condividere una casa e le notti insieme, in fondo, cos’altro? di chi sono tutti quei festeggiamenti in grande, mentre era prigioniera di quella veste innaturale color latte? di chi? non i suoi, non di certo.

è alta e sembra allungarsi sempre di più. dove vorrebbe andare? sulle nuvole, lassù, dove i ruoli spariscono e le donne possono decidere per sé, possono piacersi per il culo grosso che hanno e per i fianchi diluiti nello spazio, possono dire del loro mestruo e possono annaffiarci i loro fiori, diluendolo con abbondante acqua. per cosa? per sentirsi terreno e radici insieme. terra e radici. ma devi andare sulle nubi per farlo, capito? lì in cima.

ora è madre. non può più dirsi figlia, a suo avviso, ed è per questo che le duole la schiena. pare che si carichi addosso tutte le responsabilità del mondo, ora che è madre. perché è madre, solo per quello. da figlia avrebbe solo un po’ di mal di collo e via.
 
suo figlio le sta incollato alla gamba destra e non la lascia camminare. le tira la gonna e gliela gira attorno alla coscia, mentre lei gli dispensa parole dolci con una voce bassa eppure isterica. dice che è felice d’essere madre, dice che fosse ora che lo diventasse, che poi sarebbero giunti i quaranta e tutto sarebbe stato più difficile. ma difficile per chi? non capivo. difficile, dopo che ti sposi che fai? figli, fai figli. cioè uno. gliene basta uno, uno e sta. due manco per sogno. anche se, in verità, non ha mai sognato nemmeno il primo.

si comporta come un’inetta. un’incapace. un’ingenua. una che non sa provvedere a sé, figuriamoci agli altri. che non dispensa consigli, ma ne beve a iosa ogni giorno, per sfamare la sua inadeguatezza. legge libri conosciuti, non s’avventura. ascolta musica pop, non s’avventura. alza poco la voce, non s’avventura. poco le interessa viaggiare, non s’avventura.

l’avventura ha in sé i semi delle possibilità e lei non ne vuole. nessuna possibilità, nessun cambiamento, nessuna crescita: solo lo status quo, quello che altri hanno scelto per lei. e lei vi si crogiola, come si fa sotto un piumone caldo e soffice nelle giornate più fredde.

non esce dal suo guscio sicuro, da quella melma che s’è costruita nel tempo per piacere a chi vuole guardare solo un guscio, senza osare a spingersi oltre. più sotto, più dentro, oltre la soglia della sua pelle abbronzata. si separa dal mondo fuori così: col suo trucco sofisticato e mai sciolto, piangendo in solitudine, per non sentirsi scoperta e fragile.

come fanno ad amarla, se lei non s’ama? come fanno? ad amarla? se lei non lo sa fare? lo fanno come fa lei, con un bel guscio da truccare, vestire, far parlare poco e bene e con i sentimenti serrati nel cassetto e al sicuro dalla vita.
 
bi
 
[steven daluz]
 
 
“l’anima lunare è in sintonia con la morte. essa non la sfugge, ma la accoglie come metafora dello scorrere, dello sprofondare, del trasformarsi, immaginare, interiorizzare, ricominciare.”

giovedì 23 ottobre 2014

storie di tramontana

una mattina mi svegliai con la voglia di vento.
di quello fresco, proveniente da nord, che m’asciugasse dall’umido di un sole ormai stanco.
i colori tenui di un’aria stantia dovevano essere brillantati, mi dicevo.
brillantati da un vento di verità, che mettesse a nudo l’essenza del mondo.
come tutte le cose belle, il vento si fece attendere.
come i compimenti, come le soluzioni, come le cotture ci mise dei giorni a decidere di alzarsi dal suo letto comodo e d’incamminarsi verso sud.
nel frattempo il mio sud guardava ogni giorno verso l’orizzonte.
il mio desiderio di ascoltare le sue storie era troppo deciso, più forte del sole stesso, più potente di un’estate rimpianta, più vigoroso delle sere allungate, più chiaro delle ombre grigiastre della notte.
volevo che mi raccontasse dei vicoli stretti stretti, pieni di silenzi e dell’aroma dei camini accesi, apparentemente disabitati, eppure pieni di vita e di atomi di bellezza.
non sono portata per la città e per la sua solidità.
no.
sono come il burro, racchiusa in un panetto per un po’ e pronta poi a sciogliermi, per farmi spazio.

la città resta sempre al suo posto, sempre uguale a se stessa, rigida e con poche cose da dire.
il vento lo sa e, appena arrivato, la ignora e passa oltre.
e così fece allora.
si eresse fiero e prese la sua corsa.
cominciò a scavalcare le montagne e a guadare i fiumi e a spirare in mezzo ai boschi e ad attraversare le strade e a bersi i vicoli e a carezzare tutti i tristi e a schiaffeggiare i meschini e a raccogliere foglie ingiallite e a urlare tutta la sua potenza di essere vento e di sapere tutto dell’universo!
tutto.
finalmente giunse in città, a sud, dove io con lo sguardo cercavo impaziente il suo arrivo, e la oltrepassò.
grida di storie mi penetrarono le orecchie e odori antichi mi fecero straripare le narici.
era lei, finalmente, proprio lei!
la tramontana.
con tutto il suo vigore pieno di femminilità e di forza e dei suoi capelli allungati dalle strade percorse.
le campane iniziarono a ballare.
solo loro, nessun’altra voce le oscurò.
quelle di città suonano, sì, ma nessuno le ascolta.
troppi rumori, troppe grida, troppe voci, troppe confusioni.
erano campane provenienti da altrove e si facevano avvertire, proprio per essere ascoltate.

suonavano ed io restai sospesa in quell’attimo, a render loro gloria.
suonavano e nessuna macchina si accese, nessuna voce s’alzò, nessun rumore fiatò.
suonarono le campane di un altrove venuto da nord.

e quanto amo, io, le campane che si fanno sentire e le storie portate dalla tramontana.

bi

[nicoletta ceccoli artist]


"il tempo è necessario perché le cose non avvengano tutte insieme"
james hillman

mercoledì 24 settembre 2014

la vita degli altri


la vita degli altri è fatta così: di citofoni, cortili e finestre.

ecco perché mi piace tanto camminare e fermarmi a leggere i citofoni. li leggo attentamente e mi fermo su ogni cognome, chiedendomi se mai io possa conoscere qualcuno, lì, o se possa averlo incontrato un giorno, chissà dove.

leggere il citofono è un modo per vivere la vita degli altri dal piano terra e senza disturbare nessuno. per capire chi abita più attaccato alla terra e non prende mai l’ascensore e chi è più vicino al cielo e può stendere i panni nella mansarda comune. per toccare i bottoni in ottone, belli tondi e tutti lucidati, o quelli di ferro più vecchi e opachi e consumati dagli indici di tutti.

i citofoni li leggo dall’alto verso il basso, così non rischio di perdermi nessuno, e ogni volta mi impegno a capire una cosa: quelli più alto sono quelli dell’attico, o no? e non lo capisco mai, perché forse – mi dico – questa cosa cambia in ogni condominio.

i cortili, poi. mi è sempre piaciuto girare per i cortili sconosciuti, quelli con tante aiuole e tante cantine nel piano sotterraneo. organizzavo delle spedizioni con i miei amici, ai tempi delle medie, e ce ne andavamo tutti lì: nei condomini degli altri, in terra straniera, dove non senti niente tuo e respiri l’aria che non t’appartiene. e pure quando scoprivamo cose che non ci piacessero – la sporcizia buttata a terra, alle volte, o angoli tetri e pieni di piscio stantio e puzzolente – allora, anche lì, ce lo scrollavamo di dosso, perché sapevamo di non appartenere a quel luogo.

alcuni erano bellissimi, pieni di viuzze incrociate, di fiori composti che sfilavano simmetrici, di panchine in ferro o in marmo usate tutti i giorni dalle natiche delle anziane, e pure così inverditi e pieni di persiane aperte e semichiuse, alcune più nuove, altre rigate di anni vissuti.

e le finestre, sì, anche quelle amo molto osservare. mi tuffo per pochi attimi nelle case degli altri, tranne quando sono completamente serrate o sporche di nero – lì no, ci giro alla larga. mi piace guardarle da lontano e vedere quanta luce tengano per sé e quanta ne rilascino per gli ospiti fuori. mi piace immaginare se lì accanto a loro ci sia un divano, se sia sempre stato lì, o se – come faceva mia madre – fosse stato spostato di tanto in tanto.

lo aveva sistemato dapprima tutto a sinistra in fondo, vicino alla finestra, con lo sguardo rivolto alla parete della cucina e la tenda bianco sporco, che col vento lo lisciava sul lato corto. potevano vederlo da fuori – pensavo – e vedere che noi ci sedevamo lì dopo le cinque, per restarcene un po’ tutti vicini, l’uno accanto all’altro. la sera no, ci dividevamo e io lì ci restavo da sola, a guardare fuori con le luci spente, alla ricerca dei chiarori altrui. poi mia madre lo spostò appena si entrava a destra, subito dopo l’arco del salone, e non potei più sdraiarmi coi piedi sulla tenda e lo sguardo buttato verso fuori.

è bella la vita di voialtri, sapete? siete tutti belli a guardarvi. ché poi – a pensarci ora – senza guardare la vita degli altri, e ricamarci un po’ d’immaginazione, la mia è perfino più noiosa.
 
bi
 
[ph. bi]
 

lunedì 28 luglio 2014

ti vedrò ricamare



“conosciti esteso”
ercole medici


“ricamavo. ricamavo di fronte alla finestra, appena davanti al davanzale. gli occhi si fissavano sulla tela, mentre i pensieri giravano per un mondo che conoscevo appena.
suor costanza diceva che le mie erano mani preziose, intarsiate di cieli e di paradiso. correvano sul lino come se scivolassero in un canale innevato e i punti s’incrociavano e diventavano migliori amici. quanto amavo ricamare…”

le lessi quella malinconia che resta viva pure dopo cinquanta, sessant’anni.

“ero sveltissima e quando mi mettevo in testa di finire un lavoro, fossero state addirittura lenzuola di organza, lo finivo puntuale e basta, tanto che mi stupivo da me per la velocità.
non esisteva più niente e nessuno, se non il caffè che chiedevo a mia madre, per lasciare le palpebre spalancate.
cominciavo dall’alto e già non vedevo l’ora di arrivare all’angolo. alle volte pensavo che con quella corsa appassionata non mi stessi godendo neanche il percorso del filo, che s’intrecciava con le mie dita e con le ore che si scurivano. ma mi sbagliavo. 
se parto ora da su, domattina sarò già all’angolo, pronta a curvare. lo dicevo così, senza esserne certa, giusto per l’impazienza di finire e di portare a termine il mio lavoro. poi all’improvviso, dopo qualche caffè e mia madre che più volte era entrata per dirmi di smettere, giungevo all’incrocio, pronta a voltare la tela.
l’angolo era il primo traguardo raggiunto, quello in cui dicevo che non potevo smettere proprio allora, allora proprio no! e giravo e continuavo la mia corsa di gloria.
le dita erano instancabili e ballavano con l’ago, girando con i fili. era tutto un volteggiare di catenelle, croci e cordoncini e pure di bellissimi punti nascosti. si vedevano solo sotto, al rovescio, e sopra c’erano solo delle ombre taciturne e appena accennate. e sai che diceva suor costanza? che nei miei ricami il rovescio era più bello del diritto… e che soddisfazione era per me, che bellezza! lo scarto era meglio del ricamo per tutti.
ricamavo di tutto: lenzuola, asciugamani, coperte, biancheria, tutte cose che potessi scrivere col filo e riporre come qualcosa di davvero pregiato e profondamente intimo.
poi smisi. per lavorare. ricamare non era un lavoro che mi permettesse di comprarmi una casa e di fare progetti per il futuro. però l’ho fatto per molti anni, per tutti, ed era bellissimo… mi sentivo importante, sentivo che stessi costruendo qualcosa nel mondo.
pensa che il telaio ce l’ho ancora: è in soffitta”.

“ricomincia, allora!” le dissi balzando dal letto “ricomincia a settembre, ottobre. scegliti la tua nuova finestra e annega i tuoi occhi di nuovo sui fili con cui scrivere, scrivere ancora! per noi, per te”.

le sue pupille corvine luccicarono. brillano da sempre di speranza e di vigore, ma io vidi altro. c’era passione, desiderio di ferire la tela per non ferirsi più con la vita.

“mi sento intatta solo quando ricamo”.

(arriverà l’alba e io ti vedrò ricamare)

bi


[christian schloe digital art]

martedì 22 luglio 2014

per aspera ad astra


"considera il mondo la valle del fare anima
allora comprenderai l'uso del mondo"
john keats

la montagna educa al silenzio.
alle parole mute dei fiori e ai sentimenti taciuti degli alberi.
alla pace eterna delle foglie che scricchiolano sotto i piedi, agli sguardi distanti delle creature che la abitano e che scrutano, mute, ogni passo.
insegna la bellezza delle cose minuscole e la perdita del fiato di fronte all’imponenza delle rocce.

la montagna educa all'ascolto.
dei fruscii, delle luci inattese, del chiacchiericcio degli uccelli.
dei richiami, dell'ombra che si sposta col sole, delle buche che s'aprono, dei rami che svolazzano, dei piedi che s'arrampicano e del cuore che pulsa pazzo dentro.

la montagna ci vuole diversi.
ci spiega il valore della lentezza, del sudore della salita, della gioia della vetta, dei panorami che ci proiettano verso migliaia di infiniti - e pure che la discesa duole alle gambe.
è una terra di mezzo che ci proietta al cielo e mette le ali allo sguardo.

la montagna ci vuole come le nuvole che disegnano ombre sui prati e vuole che scivoliamo a piedi, ridendo, nei canali ancora innevati.
 
bi

 
[monte velino, 2487 metri]


"in parete sfioro con le dita tra un appiglio e l'altro il fiore del raponzolo di roccia, il fiorellino a goccia della sassifraga.
tra i prati amo il batuffolo della negritella che sparge da vicino l'odore di vaniglia.
il corpo è avvolto d'aria, il cielo sopra pure lui è in cammino.
scendere alla fine del giorno è un atto di congedo che contiene oltre il grazie anche l'arrivederci."

erri de luca

lunedì 23 giugno 2014

un giorno a berlino ho incontrato charlie




un giorno a berlino ho incontrato charlie.
charlie stava dipingendo con dita rovinate e piene di grazia le quattro stagioni di vivaldi sulla sua fisarmonica.
un’eco di bellezza soffiava come una brezza fresca e disegnava foglie autunnali, a caderci sulle spalle.
il corpo suo tutto accompagnava queste foglie e le faceva volteggiare a destra, poi a sinistra, poi le spingeva in avanti, poi le risucchiava indietro, poi creava turbini e coni croccanti, poi le tirava verso il cielo, poi se le ingoiava dentro e le risputava rinverdite e primaverili, poi creava l’inverno e ce lo donava sui nostri palmi delle mani spalancate.
non importava che fosse giugno, no, perché charlie ci stava trasportando in un altrove senza stagioni.
la platea di charlie era incantata.
la platea di charlie era la stazione della metropolitana di stadtmitte.
eppure suonava con tutto se stesso.
col suo dentro più intimo, tanto da far gemere la sua corporatura esile, coperta da una camicia sbiadita ed un pantalone color castagna.
come se di fronte a lui ci fossero centinaia di mani, pronte e chiuderlo nel loro plauso più esplosivo.
come se un corridoio ampio e lungo gli si aprisse di fronte e lui lo riempisse di una colata di musica divina.
come se nessuno fosse in piedi, ma fossimo tutti seduti e muti e stretti dentro i nostri abiti eleganti.
tutti lì, lì per lui.
come se non importasse più nulla, nessun altro luogo da raggiungere, nessun orario da rispettare.
importava solo charlie e la sua magia suonata all’angolo semibuio del pianerottolo della metropolitana, tra una rampa e l’altra di scale.
l’ho visto sul suo palco riempito di fiori muoversi col busto verso i lati, che suonava la testa indietro e in avanti e ancora indietro.
l’ho visto posare i suoi polpastrelli su quei tasti e ho sentito le note cantate così delicatamente perforarmi i pori della pelle e incastrarsi nella nervatura delle mie ossa.
l’ho visto nel suo tait nero, acceso come una supernova pronta a disintegrarsi per rinascere più stella di prima.
io non lo conoscevo charlie, non so chi fosse e da dove venisse.
so solo che costruiva incantesimi per poche monete affogate nel cestino anonimo posto sotto i suoi piedi e, senza interrompere la sua opera solenne, rispondeva con un merci appena accennato.
e quei piedi, pieni di vita, saltavano invisibilmente sotto lo sgabello e bucavano il pavimento per raggiungere il polo opposto della terra...
non importava che fosse una stazione: charlie era lì per consegnare la bellezza al mondo.
e il mondo gli si radunava intorno per una manciata di secondi, per volare via con lui, in alto, e riscendere trasfigurato e pieno di grazia e di divinità.
un giorno a berlino ho incontrato charlie.
e mi sono commossa.
e mi sono innamorata ancora una volta della musica.
e mi sono riempita di vita.

bi



[ph. bi]

venerdì 6 giugno 2014

ricordo tutto del sei giugno



[ph. ortodibi]



ricordo tutto del sei giugno.
 
c'era il sole e le braccia ce le avevamo al vento.
la sua stanza era affranta, i muri scoloriti di quel grigio che lacrima.
e nessuna traccia di lei.
seppure ci fosse il corpo suo, più sbiadito e minuto.
asciugato dei liquidi e della sofferenza.
lei no, non c'era.
era nel vento.

ricordo tutto del sei giugno.

la sua rosa era sbocciata nel solito angolo.
l'albero di fichi era innalzato al cielo.
i suoi boccioli regnavano in bella mostra come i capezzoli di una dea.
il cortile gemeva dell'andirivieni della gente.
le voci s'infilavano un po' troppo invadenti.
ma lei non c'era più.
ed era la seconda mancanza per la fragilità di mia madre.

ricordo tutto del sei giugno.

del millenovecentottantanove.
avevo vissuto solo quindici anni insieme a lei, davvero poco.
e mia sorella addirittura solo sei.
anni pieni delle sue mani ruvide sul viso.
dei suoi baci umidi e fini.
della sua voce roca e la sua bocca vuota di denti.
della mia testa appoggiata sul suo potente utero.

ricordo tutto del sei giugno.

della sua treccia d'argento avvolta nello chignon girato sulla nuca.
della fierezza del suo passo appena appesantito.
della sua gamba smezzata.
dei suoi occhi piegati un po' in giù.
della sua tenacia così femmina.

ricordo tutto del sei giugno.

ricordo tutto di quando nonna anna si è allontanata un attimo. 

bi
 
 
 

martedì 20 maggio 2014

l'abito a pois


comprai un abito a pois, di quelli delicati come l’acqua. liscio più di una foglia di ficus, leggero come le ali di una farfalla. fondo nero, con i pois color aria. aria di campagna, quella che ti buca le narici e conserva quei riflessi color crema, senza per questo contenere latte.

comprai un abito a pois, per non sentirmi mai all'altezza di indossarlo. per lasciarlo come un dipinto incastonato nella cornice dell'armadio, per non sentirlo mai del tutto mio e per non farmi possedere mai nei contorni della mia pelle. per guardare con palese gelosia la sua superficie cilindrica e setosa, per chiudere gli occhi e vedermici dentro, bella, circondata, costretta, non libera seppure a mio agio.

lo metterò con gli stivali bassi, mi dissi, e il chiodo nero, per il solo gusto di indossarlo e subito ignorarlo, mentre mi tocca e mi s’incolla addosso. camminerò a testa alta e le strade si divaricheranno e mi mostreranno le viscere della terra e sveleranno confidenze indicibili ed io saprò mantenere quei segreti senza provare mai l’impulso sadico di tradirle e colpirle nel fianco, come si è in grado di fare, talvolta, al cospetto delle debolezze altrui.

lo metterò al crepuscolo, quando i coni d’ombra della sera assottiglieranno la mia figura e cercheranno di costringere la mia natura selvatica. mai al mattino, quando il fare porta verso i doveri della giornata e poche volte verso i piaceri.

un pomeriggio lo provai davanti allo specchio. mi raccolsi i capelli, per tenere scoperto il collo ed osservare perbene le espressioni del mio volto, per saper cogliere ogni sfumatura di seta riflessa sulle guance e sul mento. non appena indossato, il vestito a pois mi morse a morte.

pian piano il mio corpo fu attraversato dal fuoco, i capelli si levarono al cielo, i piedi si sradicarono dal pavimento, le braccia si eressero all’esterno, con la chiara volontà di staccarsi e lasciarmi per sempre. poi il fuoco si calmò e i miei occhi si accesero come due braci. dapprima rosse, poi del colore scuro del sangue appena schizzato da una vena rotta, poi più scure ancora, di quel grigio sbiadito della cenere, che è la morte delle fiamme.

comprai un abito a pois e mai mi sentii all'altezza di indossarlo. mai riconobbi me stessa in quella scelta. mai mi ci riuscii a specchiare. mai ci trovai traccia del mio sangue.

lo guardo con invidia, ancora adesso. apro l’armadio e lui sembra uscire da solo, emergendo dall’anonimia degli altri appesi. appeso, pure lui, ma in realtà sospeso. in un altro quando, in un altro dove, mantenuto vivo dal mio desiderio di possederlo e non averlo mai.

dal mio desiderio di dire che, sì, è mio e posso indossarlo quando voglio. e non averne mai il coraggio.
 

bi
 
 
[ph. francesca woodman]

 

venerdì 9 maggio 2014

antica

 

"dovete fare pensieri dolci e meravigliosi
saranno loro a sollevarvi in aria"
j. m. barrie, tratto da peter pan
  

antica
guarda, si è eretta questa bocca di leone sulle scale. un miracolo nel cemento, un segmento di vita sbocciata tra le morti. alleggerisce i piedi, quando scendi, e ti fa sentire una libellula con quattro ali variopinte. quando sali, t’accompagna i talloni, facendoli spiccare verso l’alto.
 
antica
la tovaglia di quel rosa primitivo incipria la tavola. ce l’hai lasciata cadere, come un cristo cede alla propria fine, annodandosi tra le braccia addolorate di sua madre. giace, lì, ripiena di molliche. eppure è così piena di vite.

antica
appartengo ai luoghi in rovina, in cui i muri consumati di esistenza riscrivono sulle proprie pelli la mia storia. come fece la fanciulla bianca, che una notte strinse la mia mano con la sua luce e lesse. lesse me, i miei trentanove anni, facendoli scivolare tra le nostra dita. dita bambine. 

antica
come la mensola di marmo, che incappuccia il comodino al piano di sopra. indugia sul legno appassito e, carezzandolo, gli ricorda quanto le carni si gelino al contatto col marmo. il marmo spezza ogni sentimento e ricorda che il brivido è uno strato di pelle che scivola via e che perdi per sempre.

antica
come la macchina da cucire nera e stondata, che hai nascosto allo sguardo del mondo. l’hai riposta nel passato remoto, in cui il tempo l’ha cristallizzata. riposa nel soggiorno, ferma da tempo. per lei vivere non equivale a fare, esserci è ciò che basta. per me neanche, eccome. vivere non è mai fare.  

antica
come i decori celesti dei piatti e delle tazze da tè. la dolcezza non è una debolezza che va perdonata: questo cantano in coro, dalla credenza poggiata sul muro. la dolcezza dei colori pastello della voce che non s’alza, delle carezze che il suo indice mi scrive sulla fronte, della discrezione del buio e di quanto sia capace di farsi nero: questo, tutto questo è ciò che ci è stato insegnato.

antica
piantata nel posto sbagliato. con lo sguardo alla ricerca dell’est e dei suoi contorni montani. col fiato che colora di verde la bocca e lecca la lingua di brina. io mi curo col vento. quando il respiro vien meno e il petto si cuce sul cuore, allora sento un vento secolare che spira. e inghiotto l'aria fino in pancia, per restare in vita.
 
bi
 
 
[shadowbox photography - delusions]
 

venerdì 18 aprile 2014

una notte si svegliò con un vulcano dentro


una notte si svegliò che aveva un vulcano dentro. accese la luce in fretta e si alzò ritta sulla schiena, gli occhi di fuori. il cuore galoppava selvaggio e pareva ribellarsi allo spazio che lo conteneva.

una notte si svegliò che ardeva ed eruttava. sembrava che dovesse buttare fuori il rosso del fuoco, unito al nero ingrigito della brace, e far tremare il letto, come solo un terremoto spaventoso sarebbe capace di fare.

questo stava accadendo e la paura le faceva fuggire il cuore ancora di più prepotentemente. le bussava in petto coi pugni stretti a morte e batteva, batteva, batteva potente più che mai, pronto a fuggire lontano chissà dove.

ad un tratto la luce lieve del suo lume non bastava più a rassicurarla e, con l’ara intrappolata nella gola, disse due volte il mio nome. la prima volta mi chiamò sbiadita. la seconda pronunciò il mio nome terrorizzata, ansimando angoscia.

- che hai?

solo questo le chiesi e subito capii che occorreva accendere anche l’altro lume. boccheggiava con affanno e di nuovo il vulcano cominciò ad eruttarle dentro. bianca come un fantasma, mi spalancò il viso davanti, chiedendo aiuto con il timore negli occhi. mi alzai svelta e la presi piano tra le mani.

- vieni, vieni nel mio letto.

si stese davanti a me, con la pancia volta al soffitto, e prese a respirare più veloce. le presi la mano. ero girata sul lato destro e la guardavo fissa. ero certa che il mio sguardo addosso l’avrebbe tranquillizzata un po’.
 
si girò anche lei sul lato destro. le carezzavo la mano, le sfilavo i capelli dal viso, il mio abbraccio le fasciava la schiena, in attesa che il respiro rallentasse quella corsa. sentivo con le dita il suo viso inumidito dalla preoccupazione del vulcano che le batteva dentro.

nel frattempo il mio letto era nel mezzo di un terremoto. il suo cuore sembrava avercela col mond’intero, bestemmiandole dentro contro la vita e contro quella notte piena di buio e di ore insonni da dormire. galoppava veloce, pazzo di furia e pieno di forza.
 
eravamo distese, una attaccata all’altra, come fossimo per terra, su un terreno bollente in cui accanto scorreva lava rosso fuoco, che ci colava viscida tutt’intorno. il vulcano si era svegliato nel pieno della notte e noi non avevamo fatto in tempo a fuggire, perché lei ce lo aveva in petto. i minuti correvano pure loro, tutto mi pareva più rapido e mi scivolava dalle dita. provavo col mio respiro a dare ritmo al suo, facendolo rallentare per quanto fosse stremato da tanto fuggire.
 
piano piano il vulcano abbassò la voce e si piegò all’unico epilogo possibile: spegnersi per morire un po’. la lentezza la prese per mano e la accompagnò a farsi calmare dal silenzio della notte. respiri più lenti, il cuore calmato, il corpo più leggero: il vulcano s’era finalmente sopito. eravamo stremate. avevamo combattuto e vinto contro il vulcano e il suo feroce furore.

una notte si svegliò che aveva un vulcano dentro. con la luce del mattino ci abbracciammo e il suo petto aveva smesso di eruttare.

bi

 
[ph. francesca woodman]




“era ancora troppo giovane per sapere che la memoria del cuore elimina i brutti ricordi e magnifica quelli più belli, e che grazie a tale artificio riusciamo a tollerare il passato”.

gabriel garcia marquez, l’amore ai tempi del colera


martedì 1 aprile 2014

occhio malocchio prezzemolo e finocchio (seppure qualcuno l’abbia detto già)


[christina tsevis aka crosti]


ti auguro settantaquattro semini in ciascun mandarino.
ti auguro la dolcevita di lana con trentotto gradi.
ti auguro trentuno giorni al mese di sindrome premestruale.
ti auguro un barattolo di nutella incollato a morte sul pensile della cucina.
ti auguro che ti cada una bottiglia d'olio all'una e hai un'ora sola di pausa pranzo.
ti auguro le farfalline minuscole in dispensa.
ti auguro un selfie rugoso e pieno di borse e di occhiaie.
ti auguro che ti abbandoni l'amico immaginario.
ti auguro la ricrescita dei peli tripla, cioè una triade per bulbo.
ti auguro di lavarti i denti con il copri-occhiaie.
ma, se continui, ti auguro di lavarteli con il silicone.
ti auguro che ti vengano delle ascelle con le scie chimiche al seguito.
ti auguro il perizoma di due taglie più piccolo.
ma, se continui, te lo auguro di due taglie più piccolo e in bici per tre ore.
ti auguro un chilo in più per ogni inspirazione (che se espiri non lo perdi mica).
ti auguro una rumorosa flautolenza la prima volta che ci fai l’amore.
ma, se continui, te ne auguro una silenziosa e tossica quando ci sei in macchina e siete in due.
ti auguro una dedica con un apostrofo sbagliato, scritta con la bomboletta nera sul lunotto della tua macchina.
ti auguro accendini rotti per le prossime ventiquattro ore.
ti auguro cornflakes al peperoncino alle sei di mattina, che fuori è ancora buio.
ti auguro lo smalto scheggiato.
ti auguro il vino rosso sulla camicia bianca (che non è un disegno).
ti auguro il mostro sotto al letto di notte.
ti auguro la ricrescita brizzolata per una settimana.
ti auguro il tacco incastrato nei sampietrini.
ti auguro la bici senza marce con un chilometro di salita.
ti auguro gli gnocchi duri come sassi.
ti auguro che ti cada l’ultimo boccone di crostata.
ti auguro di aprire un bottone con asola come se fosse a pressione.
ti auguro mandorle amare.
ti auguro di avere da leggere solo un libro di fabio volo e da ascoltare solo robe di gigi d’alessio.
ti auguro una giornata senza esse emme esse, né uozzap [licenza po(i)etica].
ti auguro che ti ripetano proverbi e frasi fatte per due ore tipo mantra.
ti auguro di incontrare un orso e di non avere con te carta igienica.
ti auguro di assistere all’eclissi di sole e poi puff… che si annuvoli di brutto.
ti auguro idee fisse come se piovesse.
ti auguro che ti mettano puntini sulle i con le puntine.
ti auguro che ti s’impigli la coda di paglia nell’ortica.
ma, se continui, che ti si chiuda nella portiera della macchina.

bi

(lo si fa per giocare)

venerdì 28 marzo 2014

alla voce entropia


se non ci fosse la gravità, non ci dovremmo alzare dal letto. saremmo già delle parti che nuotano in aria. con gli occhi chiusi, sì, e posizioni fetali che durano non più di qualche secondo. poi volteggeremmo un po’ orizzontali, un po’ no, verticali il giusto e obliqui quanto basta.
non alzarmi dal letto sarebbe uno di quei desideri fantastici, che se divenissero realtà vera – di tutti i giorni, dico – io proverei una gioia senza senso dalla bocca dello stomaco in giù.
come l’altro giorno, mentre guidano e pensavo a p. al fatto che stia poco bene e che comunque rimanga perfettamente sorridente e piena di energie. un po’ lo conosco il suo segreto, un po’ resto in attesa di conoscerlo meglio. allora, ascoltandola un pomeriggio, ho deciso di avvicinarmi a lei. ho pensato che da quel momento avrei iniziato a tenerle la mano e a dirle che ci siamo tutti in questa terra, a destreggiarci tra mille cose e grossi problemi, e cerchiamo di farlo tutti al meglio di noi stessi. e che la condivisione, lo starsi vicino una accanto all’altra a guardare verso lo stesso lato, ci fa sentire più forti, meno soli, più accompagnati.
lei mi ha accolta e ha stretto la mia, di mano. ecco. questa è una gioia profonda. quando esci da te ed entri nell’esistenza di un’altra persona. ho provato una felicità molto forte, che a dirla così un po’ si sciupa, quindi me la tengo per me.
non è che comunque non mi alzerei mai, se non ci fosse la gravità, perché ad un certo punto gli occhi mi si spalancherebbero e il mio sonno mi sussurrerebbe che si sente appagato e che basta così. questo accade il più delle volte dopo otto, nove ore almeno da quando ho iniziato a dormire e comporta un sacco di robe. tipo che alle nove di sera ho già sonno, per via della sveglia con gravità della mattina successiva.
ho gli occhi pigri, si vede, e pure io sono pigra, quindi andiamo perfettamente d’accordo. ché a fare troppe cose e sempre con ritmi velocissimi poi mi si svita un po’ il cervello e mi liquefaccio. sarà una difesa, questa.
a chi non piacerebbe nuotare nell’aria, in lentezza e sicurezza, eh? senza il rischio di precipitare, di provare il vuoto in pancia e le gambe pietrificate dalle vertigini che ti ingoiano, di dover stare sempre coi piedi per terra, anziché starci – che ne so – con le mani o la testa, eh? a chi non piacerebbe fare dorso senza bagnarsi, fare rana senza ficcare la testa sott’acqua, buttare via i braccioli e non doversi più infilare quelle ciambelle con le papere che ti sbattono in faccia. eh?
la gravità è impegnativa, ecco che c’è. ti succhia e t’incolla qui e non puoi volartene da un’altra parte. e non ci sono invenzioni supertecnologiche che reggano: il nostro destino è stare ancorati per terra sulla terra.
e allora non ci resta che farcela alleata, così come abbiamo fatto da sempre, e pesarci sulla bilancia, correre anziché volare, inventare le scarpe e comperarcene di mille tipi e mille colori, avere i capelli lunghi, che tanto restano appesi verso giù e non danno fastidio, sederci sulle sedie, dormire sui letti e fare, insomma, tutte queste cose scontate qui.
però una cosa bella ci resta: l’entropia. lei è ribelle e non risponde ai principi ordinati della gravità, ma subisce il fascino deformante della relatività e dello spazio che altera l’universo. dunque mi entropizzo un po’ anche io. 

bi

entropia
[en-tro-pì-a] s.f.
fis. Variabile termodinamica di stato, interpretabile come misura del disordine di un sistema


[ph. man ray, l'etoile de mer]



"io guardo spesso il cielo. lo guardo di mattino nelle ore di luce
e tutto il cielo s'attacca agli occhi e viene a bere,
e io a lui mi attacco, come un vegetale che si mangia la luce".

mariangela gualtieri, da fuoco centrale

lunedì 17 marzo 2014

frammenti di una giovane figlia


il conflitto con mia madre nacque giovane e forte e si sviluppò anche grazie al vestito a mezza tunica color beige. una specie di sahariana (così la chiamava), tipo camice, abbottonata sul davanti e stretta in vita da una corda da saio. odioso. brutto. smunto. questo pensavo di quel coso orribile.
le altre bambine giravano, illese e sorridenti, su vestiti lilla dalle principesche pieghe sulla gonna, che facevano delle ruote vorticose ad ogni giro su se stesse. il mio immobile. un quadro antico. era poi corredato dal mio stoico broncio, ben pettinato sul viso candido, scaldato dai miei due occhi intarsiati di giallo oro.
vestito beige da fraticello-femminino e broncio, un’ottima presentazione alla festa in giardino. l’unica cosa da fare restava quella di scatenarmi, a tal punto da far saltare quei bottoni sul davanti, uno ad uno. ma all’epoca era un atto decisamente troppo rivoluzionario e io non ce la potevo fare. allora mi limitavo a scatenarmi il giusto, senza far saltare i bottoni, ma tornando senza voce e senza fiato.
poi il conflitto si espanse, nutrendosi di eventi assai interessanti. come quando a settembre giungeva il momento di comprare il grembiule e il fiocco blu. tutti avevano dei grembiuli abbastanza spartani, con comodissimi polsini elastici, poche smancerie cucite sul fronte e fantastici fiocchi in fettuccia di cotone blu già infiocchettati. sì, già belli infiocchettati proprio.
il mio no, naturalmente per lei doveva essere differente, perché lei le cose uguali agli altri non voleva farle. ma non chiedeva a me, per sapere quale grembiule potesse piacermi di più, no. lei è nata bilancia ed è l’esteta per eccellenza. le scelte estetiche spettavano dunque a lei, per diritto acquisito dalla nascita.
e così io ero l’unica sfigata che aveva il grembiule bellissimo, ma senza elastici al polsino, con due maledetti bottoni, che mettevano a dura prova la mia già vacillante pazienza. ogni volta per lavarmi le mani era una doccia d’acqua lungo gli avambracci, perché, appunto, i bottoni non riuscivo a riabbottonarli. e fosse mai che io andassi in giro con le maniche ciondolanti del grembiule, mai!
poi il fiocco. un nastro spazioso e fulgido, degno delle cose più luccicose del mondo, liscio e setoso, da annodare ogni volta attorno al collo. ogni volta. non come quei fiocchi in fettuccia di cotone blu già infiocchettati di prima, ma un fiocco viscido che si sfiocchettava alla prima corsa in giardino e restava appeso senza vita al mio collo imbronciato. perché sì, ero imbronciata pure a causa del grembiule e del fiocco. e dovevo correre ogni volta dalla maestra, chiedendole di infiocchettarmelo.
poi venne il momento della comunione e lì ci fu poco da decidere insieme: quel simpatico del prete aveva deciso il vestito da suora per tutte e da frate per tutti. bianchi, tutti in bianco. ma in clausura.
ricordo ancora il servizio fotografico, che mio padre custodisce gelosamente, che mi ritraeva in quell’occasione più bianca del solito, con il collo stretto dentro la morsa di quel coso bruttissimo, pieno di suoritudine, che non mi rappresentava neanche un po’. imbronciata, sì, ma anche piuttosto triste. ero già calata nella emarginazione che si prova nel non sentirsi compresi.
un altro conflitto nasceva per i capelli, che lei tagliava per farli rinforzare. rinforzare da che poi non l’ho più capito, manco crescendo. comunque corti, al massimo a caschetto lungo le spalle, e ricuciti da una forcina sul davanti. ma non legati, ché si sarebbero indeboliti.
quindi prima di entrare a scuola, con tutto il grembiule coi bottoni e il fiocco pronto a sfioccarsi e la cartella con chili di libri dentro e tutte queste cose scomode qui, io mi facevo di nascosto i codini, improvvisando una riga sul retro che se mia madre l’avesse vista le si sarebbero accartocciate le budella su se stesse a spirale!
è così, il conflitto con mia madre è atavico e dura dalla notte dei tempi e si sfama giornalmente di incomprensioni da premio nobel. io parlo e lei non ascolta. lei parla e io non ascolto. io ascolto ma lei non parla. io mi metto in nero e lei dice marrone. lei dice gonna e io metto i jeans. eccetera.
eppure sono da sempre una figlia felice. ribelle, ma felice.

bi
 
 
[illustration by sara singh]
 
 
 

giovedì 13 marzo 2014

#trame




"il mondo è pieno di cose magiche
pazientemente in attesa
che i nostri sensi si acuiscano"
william butler yeats

(tra me)

mi fa senso passare nella strada asfaltata, che una volta era di terra battuta.
ci passavo in bici, seguita da una nube di polvere chiara. andava diritta, poi scendeva e io spalancavo le gambe, per ingoiare quell’aria verde e fresca, poi risaliva e le chiudevo per concentrare le forze lì, a spingere per salire.
non appena giravo a sinistra, s’apriva un viale stretto e all’orizzonte un bosco fitto e popoloso. ma la discesa per raggiungerlo era ripidissima, a risalire dico, ché a scendere siamo tutti bravi e coraggiosi.
allora giravo a destra e lì mi imbattevo in una serie di casette di campagna, un po’ improvvisate. non ville ricche, ma casette con piccole corti e prati selvatici, di trifogli e margherite bianche.
ora tutto questo non esiste più. ha vinto la grammatica del cemento e del catrame dell’asfalto. le auto ci passano felici e superano i cinquanta, tanto la strada è larga, ché ha rubato centimetri, quasi metri, ai prati incolti.
la verità? è che siamo impermanenti. tutto è impermanente. le vie, i prati, le margherite, le salite e le discese, le biciclette, le età, i sentimenti, le emozioni, le vite, i problemi, le opportunità, le decisioni, i desideri. tutto cambia, perché cambia sul serio. veramente.
siamo tutti il multiplo di qualcos’altro e qualcun altro e questa strada corvina e liscia e tutta diritta è il multiplo triste di quella sterrata e sconosciuta e così tanto emozionante, che ha perduto per sempre la propria impermanenza. per quanto io la conservi ancora bella stampata in mente e ne mantenga viva non solo la memoria scolorita, ma anche gli odori disabitati e le musiche indifferenti alla modernità.
oggi ci passo con la macchina, ahimé, e disinnesco il veduto con la veduta commemorata nella mia testa e i miei occhi ne rivedono i prati e le margherite coi trifogli e le salite e la nube di polvere chiara. e io non mi sento poi così tanto narcotizzata dai nuovi panorami senza nome e senza emozione, che mi si stringono attorno con una morsa insanabile.
ci ritrovo quello stesso incantamento, che mi tira come il dondolio di un’altalena lenta, che sale e scende, va avanti e torna indietro.
non c’è speranza per noi nostalgici. per noi che torniamo tanti attimi indietro, non uno, e lì, indietro, ritroviamo un conforto così tanto conosciuto e accogliente. non c’è speranza per noi sognatori dagli occhi spalancati, che ci tuffiamo nel nostro sguardo per entrare nell’anima delle cose. per noi che troviamo sollievo nella solitudine, che non è starsene da soli e basta, ma accarezzarci dentro e parlare alla nostra pancia. per noi che ci poniamo domande grosse come catene montuose, ché le risposte un giorno arriveranno.
per noi che nelle vite degli altri vediamo storie da narrare e mani da offrire e che alziamo la voce per la passione che vediamo ardere nell’universo e che non abbiamo l’orologio per perdere la consapevolezza del tempo e che vediamo la bellezza in una spiga di grano o negli occhi della persona che amiamo e che scaviamo nelle viscere di noi stessi per fare un passo avanti.   
tra me e me mi dico ciò e altro ancora. tipo questo:

non è il mare che si ritira nel suo ondeggiare, ma è la terra che si riprende le sue radici.

bi


[illustrazione di christina tsevis aka crosti]

martedì 4 marzo 2014

col buio tra le dita


il mio sole sorge ogni mattino - mai uguale - alle nove e mezzo
e alle nove e mezzo della sera mi tramonta  - ormai stanco - il corpo
quando invoco a mente il sorgere della luna - il sorgere della luna

suono le mie dita - sottili - scivolano l’una sull’altra
e il buio vi s’infila intorno - slacciato - come un respiro di silenzio
a farmi ombra in cima ai pensieri - in cima ai pensieri

col buio tra le dita mi sento al posto mio
raccolgo i fili diurni per incorniciarli su questa - esile - tela
della vita mia appesa in cima al soffitto - in cima al soffitto

apro valichi verso l’infinito scorrere dei miei - sconosciuti - sogni
incontro vie lattee che con le loro mani - immacolate - afferrano le mie  
e mietono calore sul buio tra le dita - sul buio tra le dita

non andartene mai - amore proprio tu - tu proprio
che il coraggio s’incammini sempre al fianco - destro - il nostro
e la bambina bianca torni a stringermi le mani nelle sue - ridendo vita

bi


[col buio tra le -mie- dita]