giovedì 27 giugno 2013

ritrovamenti


oggi torna il vecchio racconto ritrovamenti,
poiché a breve verrà raggiunto dal suo seguito...
e sempre grazie.

 


 
era l’una passata da poco e in brevi attimi la piazza si svuotò, diventando silenziosa. era così da sempre ed era inutile chiedersi da quando precisamente e come mai proprio all’una e non un minuto in più o uno in meno.
camminava con fatica per via del caldo afoso e secco e, finita la discesa di sampietrini grigio scuro e lisci, alzò gli occhi davanti all’imponente portone nero. era così da sempre anche lui, maestoso e pesante, che da piccola non riusciva a spalancarlo, come si fa con le porte che si desidera oltrepassare prima possibile. era un varco che si faceva attendere, quello.
girò la chiave verso destra, come aveva sempre fatto, con scioltezza e precisione, facendo leva con la mano sinistra sul grande pomello pendente dalla forma personalizzata: una mano esile di donna che stringeva con vigore a sé una sfera, che, battendo a sua volta sul portone, emetteva un rumore deciso, un’eco armoniosa e piena che correva aldilà velocemente e fino ai piani superiori.
era così da sempre, eppure questa volta esitò e sospirò profondamente, pensando tra sé:
- per aprire la porta, devo girare la serratura come per chiuderla...
le sembrò più di altre volte che non fosse una porta come tutte e si ricordò quando da piccola spesso si sbagliava e, ruotando la chiave, ne chiudeva una mandata, anziché sbloccarla ed aprirla.
- no, non è così che si apre. devi girare al contrario, vedi?
le spiegava sua zia, muovendo la chiave verso destra ed aprendo la porta, dandole una botta energica e decisa.
- così, ecco.
quel giorno ci pensò su, come faceva quando si perdeva nei suoi percorsi mentali tortuosi e nascosti. faceva per chiudere e la porta si apriva e nel frattempo si guardava i piedi.
- dovrebbe funzionare così anche con i ricordi, forse, e anche con quello che si custodisce nelle parti più nascoste e oscurate di se stessi… pure quelle sono porte che si aprono girando al contrario.
e nel frattempo varcò la soglia in travertino e sorrise, salutando tutti.
il pranzo era a fine preparazione, l’odore del sugo scuro e vellutato avvolgeva l’atrio, passando avanti e indietro dalla cucina al soggiorno e intrufolandosi dentro la dispensa.
s’infilò svelta proprio lì, nella vecchia dispensa, come attratta da una grossa calamita fatta di tempo espanso, che non avesse un passato ed un presente e che fosse così, semplicemente disteso su se stesso nel suo spazio e non numerabile.
ci si entrava in pochi lì dentro, giusto in due o tre ed uno accanto all’altro, perché la porta si ostruiva e nessuno poteva più farne il suo ingresso, per scoprire quali magie vi si stessero compiendo all’interno.
vi entrò, mentre sua zia e sua madre ne uscirono rapide con quattro vassoi di gnocchi di patate incavati e finiti di impastare proprio allora, pronti per essere bolliti in due ampie casseruole di alluminio dai manici tondi e invecchiati.
tutto era così straordinariamente uguale a sempre, anche le pentole erano proprio quelle.
ci restò sola. si sentì subito altrove. si girò intorno con gli occhi di allora e trovò tutto immutato, come fosse congelato in un tempo che non fosse più il suo di allora, né di quell'adesso, ma un momento tutto suo, fatto di un’epoca che infinita e senza il susseguirsi di segmenti chiamati anni.
un luogo fatto degli odori antichi che conosceva bene, delle voci dei cugini più grandi e appena adolescenti provenienti dal piano di sopra, della nutella spalmata da sua zia su un pane alto e morbido poco prima delle cinque, dei setacci per la farina marroni scuri circolari e irregolari appesi al muro sulla destra, del mobile color crema che si apriva dall’alto e in due parti e che aperto sapeva ancora di cereali e grano, del latte appena munto e comprato prima di cena dalla signora concettina, delle ciambelle al vino tonde e un po’ storte che duravano per settimane, della crostata appena sfornata con una marmellata indefinibile dal colore ibrido e che sapeva di tanta frutta scura cucita insieme, come soltanto una sarta precisa come la zia avrebbe saputo fare con la sua macchina da cucire poggiata sul muro prima della cantina.
si girò intorno con gli occhi di un tempo ed il cuore le pulsava di pensieri ed emozioni che non erano di quegli attimi, ma che appartenevano ad una memoria vivida e fatta di carne e cuore, impressi nell’anima e ancora così nitidi.
- sono felice!
balzò dentro di sé ad occhi chiusi e un po’ umidi, trattenendo a stento quel galoppo nel cuore, partito all’impazzata e senza freno. si sentiva come se quei sentimenti le strappassero via i chiodi con cui il tempo metteva ognuno nella sua croce e castigava tutti dove non avesse più senso restare. poi si voltò verso la finestra e vide sul davanzale, nascosta e tenuta segreta, un’intera crostata di marmellata scura.
le parve di rivedersi esattamente lì. folti capelli corti, occhi paglierini veloci ed attenti, un paio di calzoncini blu con tasche zeppe di segreti, una canottiera bianca a coste ricucita al centro della schiena, sandali chiusi blu con due occhi sbiechi e curiosi al centro, concentrati a scovare altri tesori. come una crostata fatta di una marmellata senza nome, scura, profumata di famiglia e d’estate, la stessa che trovava dentro i panciuti barattoli in vetro, sullo scaffale in alto a destra della dispensa.
il silenzio le pulsava tutt’intorno, eppure altre voci lontane la distoglievano altrove.

- e adesso, adesso come faccio? zia si arrabbierà moltissimo!
il terrore le solcava il viso e il cuore le stava fuggendo fuori dal petto, mentre la signora pia la prese a sé, stretta tra due braccia esili e lunghe, e le disse sorridendo:
- non preoccuparti, te la cucio io. togliti la canottiera.
se la tolse in fretta, la girò sulla schiena e la guardò con afflizione: un grosso squarcio si era aperto al centro, nel momento in cui lei stava precipitando dall’altalena di ferro.
- ti sei fatta male?
le avevano chiesto, ma lei no, non sentiva dolore alla schiena, ma piuttosto al cuore, ecco, lì sì. il taglio nella stoffa era colpa sua e lei avrebbe dovuto rimediare. e fu la signora pia ad aiutarla, facendo un ricamo certosino lungo la lavorazione a coste del cotone bianco, a tal punto che nulla lasciasse credere che vi fosse una cucitura. da allora avevano un segreto, lei e la gentile signora pia, qualcosa che sapessero solo loro due.
- è pronto, gli gnocchi sono in tavola!
rimbombò la voce stridula di sua madre, riportandola in quell'adesso: il pranzo di quella domenica a casa della zia. ma prima salì in bagno per lavarsi le mani. una luce debole e giallastra s’infiltrava nella tromba delle scale: il tempo stava cambiando e ampie nubi grigie avanzavano da ovest, dalla costa, coprendo il paese sotto una sottile coltre di fine agosto.
spalancò la porta del bagno e per un attimo restò incredula: anche lì sembrò tutto fermo nel passato.
si mise ad accarezzare le piastrelle bianche e blu dipinte con disegni antichi, controllò il ripiano incavato nel muro e ci trovò due riviste ingiallite di dieci anni prima, una biro nera, quella che usava suo zio, il lavandino bianchissimo con due manopole esagonali, sempre troppo dure per lei da aprire e chiudere. e quel profumo di pulito, un pulito eterno e sempre fresco.
- è certo che non apparteniamo ad alcun tempo, no. ma ai luoghi, quelli sì.
si disse posando la mano sulla maniglia antica e lavorata e, lavate le mani, se ne andò quasi dispiaciuta di riscendere.
raggiunse gli altri al piano di sotto: il suo posto a tavola era quello di sempre, alla sinistra di sua zia e a destra di suo cugino, la finestra sulla lunga collina alberata alle sue spalle ed il grosso camino in marmo sulla sua destra.
mangiò quasi fino allo sfinimento, come a riempirsi la memoria di sapori, odori, abbracci che non voleva andassero perduti: due piatti di ottimi gnocchi di patate irregolari, ognuno diverso dall’altro, morbidi ma consistenti, spuntature di maiale al sugo con due salsicce panciute e tozze e cicoria ripassata in padella, verde, più verde delle altre.
- lasciati un po’ di spazio, perché c’è una sorpresa.
le sussurrò sua zia all'orecchio destro, sporgendosi verso di lei e posandole la mano sulla spalla. ebbe un sussulto. per nulla al mondo avrebbe voluto che quella sorpresa si sciupasse, confidando a sua zia di aver scoperto una crostata nell’angolo nascosto della finestra della dispensa. rimase senza parole e sgranò gli occhi su di lei per la gioia. aspettò.
in quell’attesa c’era un universo in movimento. il lungo sguardo ed il sorriso di sua zia la accarezzavano dalla testa ai piedi, la compiacenza di sua madre era un rafforzativo di intese antiche e quel pranzo senza tempo impregnava il salone di una forte sensazione di pienezza che, nelle viscere di non si sa dove, lei sentiva stringerla in basso, nel ventre. una pienezza che non avesse più bisogno di vuoto per riempirsi ancora: si bastava così, era compiuta.
sua zia si alzò. ormai la accompagnavano lenti movimenti stanchi e non più spensierati, dispetto di un’età avanzata e di un tempo che segna i corpi con il suo scorrere di vita.
ma non le anime, ne era certa, e guardandola la vide esattamente come fosse allora: mora, svelta, nient’affatto appesantita, corpulenta e vigorosa, austera ma dolce, con una veste a fiori dal fondo rosso scuro e comode ciabatte basse in lana cotta verde scuro, impercettibili calze del colore della sua pelle, capelli corti e scuri con la riga ben fatta verso sinistra, foltissimi e tutti uniti.
sua zia scomparve, per ricomparire piena di soddisfazione ed illuminata in viso da un riverbero di mirtilli misti a more e fichi: abbracciava a sé, stretto e con affetto, un vassoio pieno di crostata di marmellata scura ed indefinibile.
il suo regalo, profumato e dolcissimo. per lei, solo per lei.

bi

[scatto abruzzese]

mercoledì 26 giugno 2013

-assiomi-

(non godo della proprietà transitiva)

- guardo in alto nel cielo con una media di venti volte al giorno. a volte lo fotografo anche, soprattutto sovraesposto. non è mai, dico mai, dello stesso colore.  
- non godo della proprietà transitiva. per quanto i miei andirivieni siano già solo forme di pensiero, in realtà ciò che vale per molti, quasi mai, ormai, vale per me.
- temo il fragore interiore dei tuoni, il loro rimbombarmi dentro. mentre mi compiaccio dello spettacolo della loro luce e di quella loro perspicace velocità di apparire e riandarsene, avverto sempre un’eco destra all’orecchio e un tuffo in pancia.
- preferisco le persiane alle serrande. già  solo per il nome. è anche per un fatto estetico, perché le serrande sono orrende e hanno un concetto di utilità che non si confà molto alla bellezza. hanno il su e il giù, anziché spalancarsi orizzontalmente.
- sposerei volentieri un liutaio. o forse in un’altra esistenza l’ho già amato. uno che costruisce musica con le sue dita lunghe e affusolate, tra silenzi che sanno di legno e di pomeriggio. di poche parole, carnali e ancestrali.  
- m’innamoro una volta al giorno. ogni giorno si manifesta un breve motivo per dire una frase d’amore. per restare incastrata in un oggetto meraviglioso. per dedicare un bacio.
- seguo le farfalle con lo sguardo, finché ne vedo il disegno del volo. poi continuo ad immaginarle. sarò una farfalla un giorno, almeno lo spero. piccola e viola, polverosa e leggera. farfalla.
- ho sempre disegnato cavalli con una lunga macchia latte sul viso. da bambina. li ricalcavo, li copiavo, li disegnavo centinaia di volte. poi un giorno mi innamorai di una cavalla. sta con me da qualche anno e ha una lunga macchia latte sul viso.
- fisso le stelle. eppure alcune di esse già non esistono più. il tempo ci frega tutti, quello dell’orologio, dei numeri, dei mancano cinque minuti. il tempo non esiste.  
- mi capita ancora di ascoltare le canzoni di adamo, celentano, don backy, dei dik dik, dei camaleonti, dei pooh, della bertè, di mina, di patty pravo. vedo la me bambina.
- a mezzogiorno penso cose comuni. robe di tutti i giorni, facili e che mi scaccino il senso della fame.
- mangio fragole almeno due volte alla settimana, mai il latte, compro limoni giganti, adoro guardare le frutterie e sentirmici inadeguata.
- a proposito, mi sento inadeguata quasi sempre in mezzo a un gruppo. prima mi ci infilavo per forza, ora invece mi assaporo il dolce restare un po’ nel margine. e un po’ no.
- sono nata poco prima dell’estate. ed è in quel poco prima che si consuma un’immensità piena di numeri fratti e serate tiepide, scaldate da un vento del sud. amo il sud, rispetto al nord. da guardare, dico.
- non mi sento quasi mai completamente nuda. adesso è quasi mai.
- preferisco i fiori stampati sui pantaloni sottili, le righe marcate sul costume da bagno, la paglia rigida sui capelli, i piedi scalzi tutto il giorno.
- vedo le onde della terra che s'infrangono in cielo e quelle dell'oceano che mettono radici profonde. ma non posso dirlo quasi a nessuno.
- una mattina mi sono guardata allo specchio e mi sono vista bella. da lì, non ho più smesso. imperfetta ed asimmetrica, storta ed inclinata. nessun naso, nessuna ruga, nessuna rotondità, nessuna macchia sul viso mina più al mio sguardo su di me. 
- difficilmente mi sento capita. che poi in fondo io mi capisco molto bene.
- non ho empatia per chi vuole avere sempre ragione. basto io. 

 bi 

nacqui per occupare mura rovinate e antiche
per girare su strade avvolte in sampietrini scuri e consumati
velata da un cielo terso e illuminato
che fosse giorno
che fosse notte
 


[ph. mia, vista del portone della chiesa di santa maria in valle porclaneta]
 

 

martedì 25 giugno 2013

le strategie della bellezza

la bellezza è una strega.
ed ella si sentiva ipnotizzata nelle emozioni e trafitta intensamente nella bocca dello stomaco.
sentiva gli occhi lacrimare desiderio e finiva per affondarli nella sua rotondità.
la rotondità della bellezza.

un vortice di brillantezza la portava su di sé e la ingoiava dentro voci cantate di dee.
nuda, si sentiva, e coperta di soli drappi di stranezza, irriverenza, ribellione, disobbedienza.

il fascino si era nascosto lì e voleva che lei lo andasse a stanare, da dentro la bellezza.
lo guardava dritto e senza timore alcuno.
era una screpolatura, una rottura, una scheggia che aprisse fenditure nel cielo.
come quelle della luna, che coltiva la notte e va a prendere aria di giorno.
piove smania e innalza le maree, alita sui fiori e ne fa germogliare i frutti.
e lei lì, a fare i conti e a vederla sbocciare ogni ventotto.
nera, nascosta, silenziosa e fluida.
nel settimo era un letto di fieno, una falce dondolante che la spiava e accresceva ed espandeva.
nel quattordicesimo era la perfezione del pigreco, la forza dell’elevato alla terza, la poesia della pienezza.
nel ventunesimo le voltava poi le spalle, per riscendere, ritrarsi, farsi più segreta.
la abbandonava ogni ventottesimo, soltanto per poi rinascere.
una frazione come la luna, la bellezza, un numeratore di momenti, una potenza di passioni.
le sue dita bambine la pungevano e vi solcavano crateri da una vicina lontananza.
vi disegnavano laghi pieni di vita e fiumi sinuosi e senza interruzione.
la bellezza non teme la pioggia.

né le costrizioni, i limiti umani, i saccheggi, l’usura del tempo, gli sguardi sudici, i pensieri impuri.
ella s’incamminava ogni giorno con coraggio e si faceva compiere da quelle stravaganti trasfigurazioni.
la bellezza le sorrideva in primavera, lacrimava in autunno.
la seduceva e si lasciava rapire.
dapprima buia, per lei che la ignorava e affossava l’anima dentro coni di vuoto interiori.

poi intermittente, quando non ne scorgeva altro che passaggi rapidi e riflessi.
infine seducente, danzava con lei che lì ci si arrestava e c’affondava gli occhi fino alle budella.
la bellezza costruisce spazi complementari, possibilità, destini.
risiede nei colori della natura, nei sentimenti di bontà e tolleranza, nella pazienza, nella gentilezza.

negli opposti, nei ti perdono, nei no, negli oggi, negli amori, nelle risate, nei pianti.
nei vasi annaffiati, negli angoli polverosi, nelle strette di mano, nei grazie.
la bellezza è la vita.

bi
 
 
 
[artslant, dioramas of victorian relics]
 

"in tutto - in ogni persona e sentimento - sto
stretta, come in una stanza di una tana o
di un castello. io non riesco a vivere e cioè
a durare, non so vivere nei giorni e ogni
giorno vivo fuori di me.
è un male incurabile e si chiama anima". 

marina cvetaeva
 

lunedì 24 giugno 2013

diversamente

si vede da come lo guarda: lei pensa che il piacere lo provino quasi tutti. lui vive in quel quasi vago e sfumato, seduto su una sedia a rotelle. è smagrito, le gambe sembrano un disegno più che un'estensione fisica reale, lo sguardo è spento. come se avesse un bottone da qualche parte, l'unico con il quale possa controllare volontariamente una parte di sé e ci spegne lo sguardo.
il sesso è un'abilità e la sua è diversamente abile. dunque il sesso è diversamente sesso. gli si avvicina con movimenti lenti ed indecisi, senza sapere bene cosa fare.
si vede da come lo guarda: lei pensa che a lui il sesso non serva. è abituata a chi sa fare da sé, a chi si spoglia rapidamente e si regala un'ora di piacere silenzioso e gridato ad occhi chiusi e vissuto in un altrove ogni volta differente e pagato, sì, perché funziona così.
- il mio amico olandese ha un'assistente sessuale. una donna avvenente ed esperta che conosce la disabilità, oltre all'arte del piacere. mi dispiace per te, invece.
lui è diverso. diverso da tutti i clienti di sempre, diverso da quelli che camminano eretti su due gambe ben piantate. non le era mai capitato di dover spogliare qualcuno, usando grazia nel sollevargli quelle gambe assenti di gravità. di sganciare i braccioli della sedia e farli scivolare lateralmente. di spostargli le natiche più in avanti, quel po' che le avrebbe consentito di sedersi su di lui.
- il mio amico non la deve pagare. è un suo diritto, il sesso. il piacere. provarlo. è come quello di vivere la vita. e il sesso è corpo e vita.
si vede da come continua a guardarlo: lei non sa che dirgli. che è dispiaciuta, quello sì, glielo direbbe. e pure che non sa come si fa a maneggiare la sua esilità, perché sa solo spalancargli le gambe sopra. lei è lì per farlo godere.
gli attimi si susseguono incerti, mentre lui la aiuta a completare la penetrazione. lei sì che ha le curve molto belle, mentre le sue, pensa, le sue sono dritte, quel dritto giusto per incassarsi nella sua sedia.
il piacere si consuma lento, in un tempo surreale e diverso per l'uno e per l'altra. lui chiude gli occhi e viaggia in un luogo di estasi, fatto di penombra e di fisicità diversamente estesa. gli piace. ansima. lei è lì impacciata e manca di parole e concentrazione. conta i minuti alla rovescia, dicendosi che prima o poi lui sarebbe arrivato al suo orgasmo e lei si sarebbe potuta rivestire.
il piacere è servito. lui si asciuga, lei si affretta a rindossare i suoi panni. lo vede goffo ed in difficoltà e si allunga per aiutarlo. lo riveste, ritira su i braccioli, lo aiuta a sistemarsi con la schiena poggiata perbene sullo schienale.
lo guarda ancora una volta incredula prima di andarsene. sì, il sesso è un diritto di tutti. non è che un disabile non voglia godere, no. questo è un maledetto luogo comune, vero solo in virtù di una maggioranza che sta in piedi e scopa muovendosi autonomamente. non è affatto comune. è un luogo fatto diversamente, in cui si vive di quasi vaghi e sfumati.

bi
 
questo pezzo era nato ed emigrato in un altro luogo, ma il posto giusto per lui è questo: radica.menti.
 
 
 
 
 
[pablo picasso, disegnare con la luce]
 
 

martedì 18 giugno 2013

verba manent


 
preferisco il ridicolo di scrivere poesie,
al ridicolo di non scriverne.
da "possibilities", di wislawa szymborska
(nothing twice)
 

*disanimata

raccolta attorno all’ombra di se stessa
piena di dissonanze
che le attraversavano il ventre
colma di madri onnipresenti
e di sangue come cibo
di sé al centro di una stanza vuota
senza occhi puntati come fili
aveva solo orecchi e lacrime supine

*sguardi felini
 
volteggiava irradiata
dentro i pomeriggi delle tre
silenti e fischianti
di venti graminacei
con quegli sguardi gialli 
posati sopra i suoi corpi
pesanti e sottili
come un velo di seta orientale
quegli sguardi felini
le vestivano di luce
lo spirito

*impensabilità

giochi a fare l’aquilone rosso
retta da un laccio impensabile
a dire trame di parole
dello stesso colore delle viole
a baciare lembi rosati e umidi
stretti tra canini serrati
a costruire pensieri
su brandelli di eternità

bi

dedicate al femminile di ciascuno
che è un uno e un tutto




[creazione di victo ngai]


giovedì 13 giugno 2013

fotografata


 
tutta la varietà, tutta la delizia, tutta la bellezza
della vita è composta d'ombra e di luce.
(lev tolstoj, anna karenina)

 

la sua era nera, bordata d'argento in minuscoli tratti. di quelle con gli obiettivi di diverse dimensioni da svitare e riavvitare. ci guardavo dentro e non riuscivo a trovare la giusta messa a fuoco.
lui sempre.
mi ricordo di scatti bianchi e neri e quadrati, bordati di coste frastagliate e spesse. di carta satinata, mai lucida. le faceva stampare sempre così, opache. per lui erano più belle.
dai primi giorni di vita, rilassata e curiosa tra le braccia di mamma luce. la fissavo nei suoi occhi a spicchi come due castagne autunnali quasi gemelle ma asimmetriche, quelle di fine settembre. del ventisette.
mi ricordo quelle scattate di corsa, piene di echi di risate leggere. su marmi dai disegni astratti e cremosi, su mattonelle a rettangoli arancio bruciato messe sbieche e incrociate, su asfalti ruvidi e scuri, sulla sabbia battuta dall'acqua.
lui con me, assolato di tramonti rossi e opachi.
con la barba nera allungata e potata, le dita lunghe piene di corde da suonare, le mani potenti. i suoi scatti erano quadri, ogni volta dalle sfumature nuove. la sua macchina sempre con sé, portata a mano, nonostante la cinghia per appenderla al collo. la stringeva tra le mani, con l'indice pronto a dipingere.
mi ricordo di stampe rosate, quasi fucsia. un errore, diceva, al momento dello sviluppo. un incontro con la luce, che aveva alterato la vista a colori naturali. erano primi piani, in cui inquadrava una me seienne, pettinata, sorridente in modo educato, un cerchietto di margherite che m'incorniciava i lineamenti e che nuotava tra i capelli cenere portati appena sotto il mento. intorno tutto fucsia. rosa scuro, dico. il viso, il salone dietro le spalle, gli occhi giallastri… tutto era rosato. ed io non ci vedevo errori.
sembravano una gara quelle fotografie. in ogni quando ed in ogni dove portava la sua macchinetta con noi. e immortalava anche le mie lacrime bambine. come quando staccò le rotelle dalla bici blu e bianca, sul marciapiede della rotonda di ostia, e mi disse: ora puoi andare! la paura mi agganciava le caviglie e l'equilibrio mi portava a destra e sinistra e le mie lagne si tramutavano in fotografie con la bocca aperta e gli occhi raccolti in mezzo a rughe fanciulle di pianto.
mi ricordo il cavallo a dondolo al centro del salone, galoppante di libertà e zeppo di vento tra i capelli. le canzoni cantate al microfono, tutto di metallo e senza spugna nera sulla sommità: glielo avevo detto io che s'era sbagliato a comprarlo. i libri sfogliati seduta sul divano di pelle fresca color terra. i primi giorni di scuola con i fiocchi azzurri sempre troppo abbondanti. gli abbracci coi cugini. l'arrivo di quella tanto amata sorella, che ci ha messo nove anni per raggiungermi. i prati, i mari, i monti, io e mamma luce, io e il mio angelo.
immensamente amata e così tanto fotografata. per tanti compleanni e tempi importanti. importanti perché fotografati.
mi metteva al centro del suo occhio e mi lasciava lì, stampata su una carta resistente ed eterna.
domani compirò trentanove anni e correrò da lui, per farmi fotografare.
ancora una volta.

ai miei trentanove anni, ritratti su carta e custoditi con gelosia ed amore incondizionato.
a mio padre angelo, il primo uomo che abbia amato. 

bi
 
 


[fotografata nel 1974]
 

giovedì 6 giugno 2013

l’arciera

eccola, arriva.
è lei: l’arciera.
una diana piena di sole,
un’artemide senza verginità.
uno spirito ricolmo di coraggio e fierezza.

vestita di pollini e filo di scozia,
così t’immagino ora.
piena di mani che stringono,
di parole che baciano
e sorrisi che alitano.

unta di antico, dorata e gialla.
una genziana in quota,
amara e alta,
vestita di foglie scure e dure.
ti vedo così.

donna moderna con riflessi d’altri tempi
ti odo camminare in un chiostro
su due gambe femmine,
lucide e diafane.
senza ombre, senza memorie.

dea dalla testa cinta di guglie
slanciate e gotiche,
rumoreggiante in uno spazio obliato solo tuo,
eppure un po’ nostro, 
mentre pensi come le montagne.

ti cerco negli spicchi di luce dentro casa,
nei ruderi di quella scalinata,
negli intarsi del cancello verde,
nell’angolo in fondo a destra,
nella rosa che sempre è stata tua.

bi

6 giugno 1989
ad anna, a nonna.
un'emozione che c'è sempre, dentro.
 
 

 
[art of amy sol]