giovedì 30 maggio 2013

incamminati nel mio immaginario


"mi stia lontano chi ha cuore arido,
chi ha ciglia asciutte".
johann wolfgang von goethe


entra, chiudi la porta.
chiudila dalla bruttura di chi bellezza non vede e puntini sulle i interpone.
entra, togliti il giacchetto.
l’aria dell’immaginario mio ti vuole sfiorare, a partire dalle pelli più sottili e fatue.
entra, fai due passi avanti.
c’è una luce che attraversa i mondi sinistri e giunge a destra, dritto nella cucina.
cibi si cuciono tra di essi e, prim’ancora che sapori, sono profumi di gusti immaginati.
vieni, gira a sinistra.
il panorama è impervio e roccioso, coni di ombre raffreddano le salite in quota e gole di luce e di sole ardono chi l’ombra non teme.
le rocce sono memoria e passato e hanno in cima alle loro punte la fioritura di un futuro che è appena accennato.
muschiato all’occhio, vellutato al tatto.
affacciati nella finestra lunga.
tetti sfumati di terra bruciata sovrastano dimore storiche e rurali, silenti fuori e rumorose dentro.
piene di grida, di schiamazzi, di risa sconnesse, di sguardi nascosti, di vita semplice eppure complessa, di bambini in vacanza l’estate.
muovi i tuoi passi, non esitare.
l’odore è pungente nel basso ventre e floreale salendo verso i soffitti arcuati e lattei.
un pavimento miele tradisce macchie di vita ed irregolarità di pensiero.
sono i sinonimi che si strusciano ai loro contrari.
spalla a spalla, la destra.
e si voltano furibondi per l’impatto, per finire poi abbracciati tra lacrime di pentimento ed evoluzione.
incamminati, ne hai il permesso.
calpesta parola per parola questa fila di atti coscienziosi e pieni di ardore e rivoluzione e passione.
sono i miei, gridati al mond’intero.
sono così, passion-aria.
in me arde selvaggia la giustizia e il senso di protezione verso le creature tutte, soprattutto donne e persone indifese e minoranze.
in me regna l’aria con i suoi venti tempestosi ed estivi, mai brutali e pur sempre impetuosi.
ti lascio in dono il mio fianco.
pungolalo in primavera e accarezzalo quand’è autunno.
lascia che cada morbido sulle gambe sottili che camminano senza sosta da anni e decenni e secoli.
ecco, qui c’è il mio cuore.
bianco e rosso.
rispettalo.
salutalo.
pregalo.
stringilo.
lascialo libero.
seguilo.
fa’ che ti voli dietro.
ascoltalo.
dormilo.
sussurralo.
lambiscilo.
amalo.
e s’incamminerà con te.
per sempre.

bi
 
 


[immagine tratta da internet]
 

martedì 28 maggio 2013

a te i miei occhi

sono nel grido di un treno lontano, di ritorno dal posto che fu.
una nebbia appannata di tempi ibridati m'incornicia ed ecco che adorna anche te.
t'incontro e gioisco e la mia mano s'incolla sulla tua guancia color latte così tanto familiare.
ti rivedo, teresa.
e rosea e pallida e fresca, proprio com'eri allora, mi rispondi che sì, ne sei felice.
ché sempre lo dicevi, finché la corporeità che t'ospitava te ne aveva accordato il permesso.
accenni un sorriso serrato su quelle sottili pieghe della bocca.
mi cogli e mi stringi a te con le tue dieci dita grosse.
piccolo essere selvaggio, mi dici, esistono alberi incolti e tu sei una di quelli.
quando i cuori avranno pensieri, continui, diventerai corteccia e ti fonderai con essa.
vivrai nell'immensità che tanto canti, laddove m'incammino anch'io senza più fatica.
mi guardi con il turchese dei tuoi occhi di cristallo e resto lì.
con te, per te.
qualsiasi pigreco saprebbe ridisegnare la tua armonica rotondità e scattarne una fotografia.
donna di genuina ed educata gentilezza, senza libri ed istruzione aggiunta, donna vera, amabile signora.
la tua era una camera con svista.
un tranello, uno scherzo, una vita a due mancata.
sola da sempre, perché senza marito, madre di due figli.
venuti dal cielo, così pensavo che fossero.
parlavi del tuo uomo morto come uno scrittore parlerebbe di un suo personaggio.
un alito che esiste soltanto nell'occhio di chi lo sa vedere tra le righe.
non ho bisogno di nient'altro, dicevi, quando mi siedo al tavolo coi figli miei.
ed io nel guardarti mi facevo invisibile come un vetro che t'osservava e risputava riflessi muti.
eri bella.
la nebbia si fa tenue e ci apre un bosco di foglie e muschi e umidità e odori pregnanti.
lo vedi, mi chiedi, nei tuoi andirivieni disabiti luoghi e cavalchi orizzonti.
attraversi altri esseri viventi, ti cibi del loro spazio e doni loro del tempo.
non vedo.
ecco, mi dici, a te i miei occhi.
e te li stacchi uno ad uno, facendoteli scivolare sulla mano destra.
turchini e bianchi.
a te i miei occhi, dici dolcemente e me li doni.
ora lo vedo, teresa.
è come se io stessi seduta su una nuvola ed essa mi trasportasse da un essere a un altro.
ora vedo, finalmente.
non trovi parole che come i frutti di un albero riescano a raccontarmi la vita della morte, concludi.
ma tu continua a farle volare sulla bocca, mi sussurri, affinché le possa trovare anch'io.

a teresa, la sorella di una nonna che, anche lei, fu.

bi




“pensavano che anche io fossi una surrealista,
ma non lo sono mai stata.
ho sempre dipinto la mia realtà,
non i miei sogni".

frida kalho

[illustrazione di andy kehoe]

venerdì 24 maggio 2013

drammaturgia di un sonno

versi irregolari di una notte

peso come il macigno cosmico che aprì una voragine sulla terra, per accogliere il mondo delle ombre e del pianto.
la mia mano destra è certa di ergersi con coraggio, pronta ad illuminare con un bagliore la mia notte penosa.
resta invece immobile.
pare ch'io viva notti come viaggi e giorni come soste.
l'umanità tutta s'addolora in petto, mi dice la notte.
mentre m'affanno, affaticata, senza tregua, piangendo lacrime di tutti, tranne che mie.
oh, dimmi se sai come si placa questo dolore fulminante, questo vento furioso che s'impossessa dei corpi e fa sbattere l'anime come campane che vagiscono castigo.
dimmelo, tu!
con l'amore, dice.
parlato, baciato, abbandonato, lisciato, pensato, donato e scritto.
c'è bisogno di una nuova grammatica dei sentimenti, abile a cantarli e ballarli.
sacri silenzi di parole, mi dice, che li trasfigurino e che lascino fuggire i tempi finiti.
l'infinito, questo cura i mali in petto.
l'infinito.
io continuo a camminare e la penombra s'impossessa di me, imbevendomi di dolore.
non è il mio, mi dico.
soffro e la mia mano m'aiuta a far uscire frasi che tardano a manifestarsi, restando solo sibili e lamenti soffocati.
il mondo soffre, senti?
le dico, disperata.
e soffro anch'io appresso alle pene del mondo.
l'anima mia vibra e vaga in un girone di sofferenza che mai avrei potuto provare per me medesima.
per me sola.
è un dolore universale, uno spasmo violento che non s'arresta e vomita nero.
ansimo.
ancora la mia mano è convinta d'infiammare quel buio con la luce del lume, che come un lampo vorrebbe che s'accendesse e fulminasse quel mio vagare.
resto ancora bloccata.
odo il mio corpo sdraiato sul letto premere sul fianco destro.
la luce resta muta.
riesco allora a spegnere le mie lagne sulla bocca arida e rallentata, le mie dita suonano note d'aria.
sono tornata.
sono dentro.
sono sveglia.
mi cibo di respiri profondi, per restituire brezza ai miei polmoni imputriditi dal sonno.
sono sveglia.
sono calma.
sono cambiata.
la drammaturgia del sonno mi ha portato via con sé, rendendomi indietro una nuova parte di me.

bi
 
 

“non ho bisogno di vendere la mia anima per comprare la felicità. ho un tesoro interiore che è nato con me e che mi può tenere in vita, se ogni piacere interiore deve essermi negato e offerto solo a un prezzo che non sono disposta a pagare”.

dal romanzo "jane eyre" di charlotte brontë
 
 
[illustrazione di rebecca dautremer]

mercoledì 22 maggio 2013

Scalza






Ho camminato scalza
sul marmo freddo di un suolo sacro
sul pavimento di dio ho celebrato 
i giorni di vento
le onde a naufragare
l'assenza e l'aspettare
ho chiesto un perdono
o una tregua
al mio perpetuo sbandare
 
 
 
 
 
 
 
 
Di. 

mercoledì 15 maggio 2013

la cugina di agata

cadde all'improvviso.
le cadde accanto, facendo un tonfo soffocato e secco e lasciandola impietrita, a guardarla con due occhi sgranati così. più di un cuore sembrava batterle in petto, ché uno le sembrava poco per il chiasso che le si agitava dentro. 
lo sentiva dire da giorni quanto sua cugina fosse preoccupata e pure triste, per questo era andata a stare un po' dagli zii, coccolata in famiglia e lasciata tranquilla con se stessa e con le sue ferite sgranate. quando desiderava stare in compagnia, c'erano loro. suo zio le sorrideva, le carezzava il capo con l'affetto e la comprensione di un adulto piuttosto giovanile e le offriva sempre di rimboccarle l'acqua nel bicchiere. sua zia la stringeva a sé e si raccomandava che stesse bene, che non pensasse agli altri per quei giorni e che mangiasse, soprattutto.
agata le stava piuttosto addosso, le leggeva cose, dormiva con lei e stefy si divertiva a giocarci e le parlava di cose da grandi. di cerette, per esempio, e di trucco da stendere sul viso, cose che agata non avrebbe mai fatto, le diceva, né comprato neanche da grande. mai, no.
era figlia unica, agata, sola e solitaria e, sebbene sua cugina avesse undici anni di più, era felice quando poteva stare con lei, occupare gli stessi spazi suoi, dormirci, lavarsi i denti con lei, mettersi le sue ballerine allungate e ampie e dorate.  
era estate piena e quel giorno stefy indossava una gonna che la avvolgeva fin sopra alle ginocchia, tinta di una fantasia geometrica blu, azzurra, bianca e gialla, con cerchi, piramidi e quadrati. sopra aveva messo una canotta corta azzurro scuro, sottile, liscia.
cadde all'improvviso, mentre erano in un negozio di vestiti. agata e i suoi occhi sgranati le si avventarono sopra, preoccupati di coprirle subito uno dei seni, che sfuggì svelto dalla canotta. le sistemò in fretta anche la gonna, che aveva lasciato scoperta una gamba abbronzata. in un attimo arrivarono gli altri, che pure si precipitarono attorno a stefy con affanno.
- è svenuta! solleviamole le gambe!
si affrettarono tutti a darsi da fare per stefy. le alzarono le gambe, facendo scivolare il suo corpo forte verso il muro e facendo aderire i piedi alla parete. per far scorrere il sangue, dissero.
agata si preoccupò subito di sistemarle la gonna, facendogliela scivolare in mezzo alle gambe, affinché la tenessero bloccata.
- sarà colpa del succo di frutta freddo.
faceva terribilmente caldo, non si muoveva neanche un alito di vento e il sudore ghiacciato si era fermato sulla fronte di stefy. agata glielo asciugò, tamponandola con la sua maglietta di cotone bianca. aveva un pagliaccio disegnato sulla maglia, rosso e giallo e sorridente. le carezzava la fronte e le tempie con la maglia, per asciugarla da quell'ansia traboccante.
la donna del negozio portò un catino con acqua fresca e la zia cominciò a bagnarle i polsi bollenti. la sfiorò adagio e di continuo e le sussurrò cose che stefy non poté ascoltare, forse.
agata era lì.
i genitori di stefy non c'erano. in casa loro vi era una guerra sempiterna, liti che la facevano sentire minacciata e le segavano le ali. le ali di stefy.
agata era lì.
a controllare che la gonna restasse ferma e composta, che la fronte smettesse di agitarsi e si mantenesse secca, che la canotta custodisse al sicuro i suoi seni giovani e scuri, quelli di sua cugina stefy. un fiato d'aria e le premure di tutti la rianimarono e con estrema lentezza e prudenza stefy cominciò a riprendere vita, per poi sollevarsi da terra e tornare eretta, seppure con esitazione e debolezza. i suoi colori stiepiditi tornarono a illuminarle il viso e, bevuta un po' d'acqua, si allontanarono tutti dal negozio per tornare a casa.
- ti sei spaventata, agata?
le chiese stefy, una volta a casa.
non era proprio spavento, in verità. fu un'altra la sensazione, più lunga, più profonda: si sentì precaria e inerme, quasi non padrona dei propri movimenti, così le disse. quegli occhi così immobili, sbarrati in avanti contro stefy, che giaceva a terra scomposta, i suoi cuori galoppanti e ululanti in petto, il pensiero che sua cugina non potesse riaprire gli occhi, mai più, e la visione dell'intimità nocciola del corpo di stefy, gettato a terra in balia di tutti, quello proprio non riusciva a scordarselo. 
- ma non preoccuparti, stefy. mi sono presa cura io di ricoprirti e sistemarti i vestiti mentre eri a terra. nessuno ti ha scoperta.

bi
 


[immagine di sam wolfe connelly, "harvest"]
 

giovedì 9 maggio 2013

i pomeriggi di luca





i pomeriggi di luca erano in finestra.
un po’ faceva i compiti, seduto composto sulla sedia della cucina nel lato corto del tavolo. i libri ordinati, i quaderni senza orecchie, le matite e le penne colorate sistemate nell’astuccio dalla forma regolare e allungata.
la finestra era di fronte al tavolo. gli bastava distrarsi un attimo e alzare lo sguardo per avvertire forte la pulsione ad alzarsi. la apriva e si affacciava. premeva con gli avambracci sul davanzale e restava un po’ penzoloni con i piedi, le gambe scendevano morbide. e senza accorgersene ci restava un bel po’.
nato nella terra degli ulivi e dei trulli, tra il mare ventoso e chiaro e l’entroterra tinto di verde e a tratti brullo, luca era obbediente, studioso il giusto e amava arrampicarsi sugli alberi.  
io lo vedevo da fuori. vedevo che vagava con gli occhi giù per la strada. la rastrellava meticolosamente e ne copriva tutti gli angoli, anche quelli in ombra.
- sali, ti faccio vedere.
mi disse una volta in cortile. e da allora restammo amici. era pieno di biglie di vetro colorate e aveva una bici comodissima per andarci in due, perché aveva una di quelle selle dalla forma allungata e ben imbottita, tipo un motorino.
avevamo scoperto di andare alla stessa scuola elementare ed avevamo preso anche ad andarci insieme. stavo bene con lui, potevamo parlare della mia bambola di colore, della scrittrice jo del romanzo “piccole donne” e del suo amico lorence, dei soldatini pieni di vita schierati nella sua libreria, dei bambini con gli occhiali, della lebbra e di raoul follereau, senza che io mi sentissi una marziana inavvertitamente caduta dal cielo e lui sembrasse un bambino di un altro universo.
mi invitò quella mezz'ora nella sua vita e mi mostrò un mondo che non conoscevo. luca si affacciava tutti i giorni in finestra e si sceglieva le macchine. le automobili parcheggiate per strada e nei cortili, che si riuscivano a sbirciare dalla finestra della sua cucina, erano tra i suoi passatempi preferiti. si sceglieva e contava quelle che gli piacevano di più, quelle che avrebbe voluto per la sua famiglia. tipo la lancia thema grigia, la y blu, la panda bianca, la jeep grigia, l’alfa romeo rossa, la golf nera, la peugeot cabrio, la grande volvo station wagon e altre cose così. le altre no, non le sceglieva. tipo la ritmo, la croma, la uno e queste più bruttine.  
non capivo a cosa servisse fare queste scelte, contare le macchine belle e ignorare quelle brutte, ma mi divertiva. e luca mi aveva insegnato i nomi delle macchine e il fatto che il colore fosse un elemento estetico fondamentale.
il suo era un immaginario coltivato, a righe orizzontali e accoglienti, azzurro mare e a tratti rosa e marrone. non vi era nulla di euclideo nel suo sguardo e in ciò che faceva, eppure tutto sembrava rispettare un segreto equilibrio, il suo, e un’armonia celestiale. c’è un oltre in ogni oggetto e lui sapeva catturarlo. nelle auto ad esempio lui sapeva cogliere la storia della vita di chi le guidava e ne faceva una storia per sé, da non dire a nessuno. 
spesso lo trovavo a braccia conserte e andavo per aprirgliele e lui le stringeva ancora più forte sul petto suo, a tal punto da non riuscirle più a staccare.
- mi scaldano il cuore.
così diceva. e un giorno disse pure:
- la verità si trova nella mezza luna che non vedi.
da allora non guardo più alla luna come ad un satellite che non sa splendere di luce propria, ma come a una luce intermittente, che a volte regala il suo chiarore, altre volte la sua ombra.
sì, come noi persone. 

bi
 
[illustrazione di joe sorren]

lunedì 6 maggio 2013

il fratello di nessuno

dava le spalle alla strada, le mani conserte dietro la schiena appena stiepidita dal sole di aprile. conversava guardando il suo amico leonardo teneramente negli occhi. era quello il suo modo, ci metteva premura e anche un pizzico di benevola sbadataggine.
- ciao, nicola.
si voltò lentamente, con quel suo modo che la gente avrebbe certamente giudicato un po’ goffo.
- oh, ciao.
restò voltato per metà, con la parte superiore del busto. le gambe e i piedi no, rimasero un po’ storti verso il suo amico leonardo. era incerto, con il sorriso appena accennato e le labbra leggermente tremule.
- mi riconosci, nicola?
- sì, certo...
lo scrutò con quello sguardo leggermente svampito, gli occhi dilatati che puntavano le lenti spesse dei suoi occhiali, pur sempre in modo premuroso. era tenero con tutti, anche con quelli meno amici degli amici.
- come stai, nicola?
- bene, bene. grazie. e tu?
chiunque gliela perdonava quella smemorata disattenzione, quell’accennata ed innocente vaghezza, chiunque lo amasse e a cui lui volesse bene. era confuso, ché lo stava mettendo a fuoco, ma per nulla lo avrebbe ferito, dichiarando con insolenza di non averlo riconosciuto. eppure lo conosceva, ne era certo, solo che il nome proprio gli sfuggiva. gli girava intorno come l’arietta primaverile, una brezza lieve e in certi attimi pungente, ma proprio non gli veniva in mente. 
- anch’io sto bene, grazie. e anche la mia famiglia sta bene. e gli altri a casa? come stanno, stanno bene?
- sì, tutti bene. stiamo tutti bene, grazie.
lo fissava ancora diritto. era un viso pieno come una luna all’apice del suo ciclo, chiaro, rosato e appena più rosso sulle gote. tondo, molto tondo, con due occhi celesti molto chiari. che occhi di ghiaccio, pensò nicola tra sé. ipnotizzanti, quasi insidiosi.
- va bene, allora io vado. statti bene, nicola.
- grazie, grazie. anche tu, ci vediamo. ciao.
restò ancora così: voltato per metà con la parte superiore del busto e le gambe e i piedi un po’ storti verso il suo amico leonardo. sembrava sospeso, con quel suo sorriso un po’ tremolante e gli occhi buttati lì nel vuoto.
vagava nel vuoto di quell’istante. una svista non ricordare quel nome, pensò. quel viso di luna piena, bello tondo. quegli occhi di ghiaccio, così confusamente familiari. quella statura alta e quel portamento appesantito da un fisico nient'affatto longilineo.
d’un tratto tornò padrone del suo sguardo. un tuffo interiore gli fece sobbalzare le costole e tremare impercettibilmente le spalle. leonardo era ancora lì, distratto nella conversazione con un altro passante e sembrò non accorgersi del rossore sul volto di nicola. 
era suo fratello.
l’uomo alto tondo col viso pieno e gli occhi di ghiaccio, quello lì, era suo fratello. quello con cui non si parlava da otto anni e con il quale aveva litigato per un’intera vita era suo fratello. quello prepotente che lo sovrastava con parole forti sulle sue fragili era suo fratello. quello che non aveva subìto le angosce che i loro genitori avevano inflitto al maggiore dei due, nicola, era suo fratello. quello che una volta lo strattonò per la maglia e che avrebbe voluto picchiarlo era suo fratello. quello che si era fermato lì, sotto il tepore del sole di aprile, in una mattinata tranquilla in strada, lo aveva chiamato e salutato e aveva chiesto come stesse e come stesse la sua famiglia era suo fratello.
un riverbero di passato passò accanto a nicola e gli diede un'energica pacca sulla spalla. non preoccuparti, gli disse, tu guarda avanti. tu gioisci con la tua famiglia di adesso. non pensare ai soprusi subìti e all'amore strappato via. tu mantieni il tuo sorriso intimidito e un po’ sbadato sul tuo viso. che al resto ci pensa la vita, nicola.
la vita ti ama, nicola. tua moglie anche. le tue figlie ancor di più.
nicola, il fratello di nessuno.

bi




[the musician, http://www.randomgallery.it/Randomgallery/home.html]

giovedì 2 maggio 2013

tornò

s’ascoltò così, restando muta.
si concesse un orecchio coraggioso, di quelli che non restassero indifferenti.
lo fece così, passandosi appena l’indice attorno all’orecchio sinistro e attorcigliandoci una ciocca chiara un po’ disordinata.
fu così che dilatò l’udito fino al suo intimo, giù, in fondo.
egli le confessò quanto lei si amasse, in fondo.
pure con tutti quei difetti ostentati sotto agli occhi brutali di tutti.
ché lei lo sapeva: era bella.
una donna d’amare, che a modo suo s’amava.
si allontanò quel po’ che la fece ritornare.
la solitudine, quella le serviva.
la distanza dalle voci che la distraevano, quella voleva più di tutto.
portarsi la sua sé appresso, senza caricarsela come un peso inerme, quello le occorreva.
il resto lo trovò di là.
l’eco delle notti senza bisbigli, quello trovò.
sdraiata su una nuvola e cullata dalle mutevoli voci del vento.
rannicchiata sul ciglio di una serena luna calante, nuotando per un cielo terso e nero.
distratta dall’odore della menta e dall’eleganza primitiva delle viole di maggio.
un percorso impervio e sudato, quello trovò.
inumidita dai primi colpi di calore del sole e rimproverata da un’aria pungente.
meravigliata da gesti insoliti e straordinari e da attimi inconsueti e pieni di spazio.
scollata dalla noia, incollata alla terra e ai suoi segreti.
i colori che desiderava, quelli trovò.
i viola, i fucsia, i rosa pallidi.
i verdi bagnati, i verdi asciutti.
gli azzurri carichi, i gialli densi e succosi.
motivi per restare, quelli trovò.
scardinando le porte dell’abitudine.
dimenticando porte da tenere chiuse.
lasciando cadere paure e tentennamenti.
e trovò il sole coi suoi cammini sempre uguali, la luce coi suoi spicchi geometrici nei pavimenti chiari, la pioggia rimbombante e chiassosa e grigio perla, l’amore schivo, l’amore gentile, l’amore carnale, parole da ripetere, parole da scordare, pizzichi di memoria e storia, fiori grandi come spilli, foglie dense come vernici, rumori ascoltati nel primo sonno, sogni cavalcati nelle ore avanzate delle notti, trapassi, passaggi, pagine voltate.
tornò leggermente dorata, piena di pagine da scrivere e bocche da baciare.
tornò sempre uguale e così diversa.
tornò di quei ritorni che odiava da sempre e che un giorno, ne era certa, sarebbero scomparsi.

bi
 


"e allora impara a vivere. tagliati una bella porzione di torta con le posate d'argento. impara come fanno le foglie a crescere sugli alberi. apri gli occhi. sul raccordo del green cities service e sulle colline di mattoni illuminate di watertown, la sottile falce di luna nuova sta distesa di schiena, unghia luminosa di dio, palpebra abbassata di un angelo. impara come fa la luna a tramontare nel gelo della notte prima di natale. apri le narici. annusa la neve. lascia che la vita accada".

sylvia plath, diari



[immagine tratta da surrealismo pop]