lunedì 31 dicembre 2012

i peggio regali

basta il pensiero, sì, purché sia un pensiero bello e pensato bene.
non uno qualunque, impersonale rispetto a chi lo fa o a chi lo riceve, opaco e insipido, senza colore né anima, senza nome e cognome, senza amore proprio.
avete ricevuto almeno uno dei peggio regali?
tipo una presina in feltro con la faccia di babbo natale che ride.
è rossa e bianca, dunque apparentemente ben abbinabile, ma di una bruttura quasi unica.
neanche utile, perché per essere natalizia è di feltro e le dita te le scotti, eccome.
tipo un panettone, una bottiglia e un pacco di caffè.
tipico regalo che si scambiano gli adulti attempati che hanno superato i sessanta.
il panettone è quello scontato all’entrata del supermercato a destra, con i canditi giallo paglierino e rosa sbiadito, che sanno di caramelle mou e poco di canditi.
la bottiglia è frizzante e sta sotto i due euro, c’è scritto brut e tutti credono che sia per dire secco, invece è brut-tissima.
il pacco di caffè è una roba d’altri tempi, che nel dopo guerra i nostri nonni regalavano ai vicini di casa in cambio di un po’ di pane appena sfornato dal forno di casa loro.
una specie di baratto che aveva senso allora, non certo oggi.
tipo anche un messaggio uguale parola per parola e inviato a catena a tutti gli amici, senza un minimo di riferimento a noi che lo riceviamo, senza il nostro nome, senza sentimento, senza pensiero, senza l’essenziale.
il vero orrore.
poi i peggio regali sono pure quelli che uno fa a se stesso.
tipo attaccarti ad un uomo che non ti ama.
che ti violenta ogni giorno con il suo silenzio, che ti ignora senza sguardo e che ti vuole solo convincere ad andar via.
affinché sia tu ad andartene, credendoti coraggiosa e forte.
non lui a cacciarti, solo perché è un vigliacco.
invece ti ha già cacciato, mentre tu ti ostini a restare.
senza dignità, senza rispetto, senza amore per te stessa.
tipo un  paio di ciabatte con il tacco e il pon-pon di piume al centro.
bianche o, peggio, color cipria.
da quando in qua le ciabatte con i tacchi sanno di buon gusto e di beltà e di intimità da casa-dolce-casa?
da mai e mai lo sapranno.
tipo quelle costosissime creme della profumeria che sono di marca e non valgono un cavolo, che sono piene di zozzerie e alcune sono pure cancerogene, ma non lo sai perché non sai che dovresti quantomeno leggerti l’inci, piene di petroli e di siliconi invisibili e pericolosi.
tipo quelle maglie di lana che ti dicono al negozio “questa di lana è bellissima e caldissima” e vai a leggerti l’etichetta e c’è scritto che di lana ce n’è tipo il venti percento, se ti dice culo, e il resto sono acrilici e fibre sintetiche di questo genere.
e la maglia è di marca e costa più di cento euro.
tipo la febbre quando non lavori e vuoi partire e non vedi l’ora ché i tuoi amici di sempre t’aspettano che hanno fatto la spesa per il cenone di capodanno tutti insieme con un menù gustoserrimo e una tovaglia di carta spessa rosso fuoco e i calici intonati con il centrotavola fatto a mano e la musica alta mentre si mangia e pure dopo e il brindisi tutti insieme in piazza a strillare e dire vaffanculo all’anno vecchio e a chi lancia i petardi dalla loggia che ti baci felice e ti stringi felice e sei felice e vai a letto felice.
i peggio regali esistono e si riproducono rapidi come conigli, ma conigli non sono.
sono regali brutti, regali di merda, che sarebbe bello per il  mondo che non venissero fatti né a sé, né agli altri.
il mio augurio per l’anno nuovo è di non fare e non ricevere regali così, che nessuno ne ha bisogno.
regaliamoci pensieri che siano ben pensati e pure una vertigine che ci porti danzando nell’immensità.   

aug, bi



[immagine tratta da internet]

lunedì 24 dicembre 2012

io regalo cuori





ho incartato tutto con fogli bianchi opachi e lucidi e tanti cuori rossi.
i regali se ne stanno zitti zitti sotto l’albero, vestiti con pezzetti del cuore mio, illuminati da lucine colorate e sparsi sul pavimento freddo.
sono pronti ad incamminarsi per conto proprio, perché sono regali emancipati: ognuno sa dove deve andare e da chi e quando e come.
sono tutti pensati per ciascuno e molto desiderati, perché io per prima voglio che partano presto e raggiungano la persona a cui sono destinati.
il regalo di m. è già andato: eravamo a cena io e lei, una candela a scaldarci i visi un po’ stanchi. il suo l’ho pensato come un regalo che la accompagni e la protegga, come un velo di luce azzurrina e grigetta, leggera e liscia. un regalo che la avvolga e le abbracci le gambe.
il regalo di g. anche: è sotto il suo albero, con una lettera d’amore. lo aprirà ed io sarò lì a prescindere, sotto una forma chiara e ariosa, che è pure sostanza rossa e calda. ci accompagnerà, sempre.
vicino al suo, ce n’è uno per e., accogliente e color carota, nulla che possa competere con la sua bellezza delicata e ancora un po’ acerba, semmai la esalterà. l’altro, squadrato e costretto dentro altri cuori, è di m. e sono certa che le piacerà da matti. 
il suo regalo r. l’ha aperto ieri: i suoi occhi cercavano di capire e le sue mani fremevano, che a metà della canzone l’ha spalancato e mi è saltata addosso. è un regalo da condividere una sera di marzo, quello. una sera delle nostre, un altro pezzetto di viaggio.
due piccoli pensieri per j. e g., i miei dolcetti con lo zucchero a velo, sono sotto il loro albero, pieno di piume e di altri regali generosi e zeppi d’amore. d’altronde, loro sono una famiglia meravigliosa.
c’è ancora una fetta di regalo della mia piccola grande a.: lei pensa di aver aperto tutto quanto, invece questa sera avrà un bel da fare e borbotterà qualcosa delle sue e tutti rideremo di fronte alla nostra splendida tavola imbandita.
quello di m. l’ha scelto lei, contenta e felice. gliel’ho incartato stretto stretto e questa sera lo scarterà lo stesso, che ama tanto staccare lo scotch senza rompere la carta. e leggerà il biglietto, che per lei è la parte principale. anche p. ne scarterà uno e dirà, come sempre, che non ce n’era bisogno. e gli lacrimeranno gli occhi verdi quando leggerà il biglietto, prima di strappare la carta coi cuori.
ce n’è uno anche per a., non perché io ne voglia un altro indietro, ma solo perché a lei desidero dare una cosa. che la porti con sé, che le dia un’indicazione, che la guidi quando si perde un attimo e che le ricordi che ha acquisito una nuova amica, che le vuole un gran bene.
anche d. ne avrà uno, morbido e terreno, che le ricordi che lontano, eppure vicino vicino, c’è la sua amica che le prende una mano e gliene dà una sua da stringere.
quello di b. è piccolo e riluce di bellezza come lei, è un po’ piccolo e un po’ no e può averlo sempre con lei.
ce ne sono due uguali e di colore diverso per g. e l., così potranno indossarli nel freddo delle nostre montagne magiche.
altri due per a. e f., tondi, utili, raffinati e luccicanti, sì, proprio come loro.
c'è pure qualcos'altro e ci sono altre cose che vorrei donare, cose che basta il pensiero concepito con parole dette con il cuore, che si incarteranno da sole e arriveranno fino agli altri.
cose che ricordino che i regali sono un bellezza da donare e da ricevere, che le parole vanno scelte belle per tutti, pure per se stessi, che non serve la ricorrenza per farli ma anche sì, che sotto l’albero di natale le radici ci sono ma non si vedono, che un pensiero a chi è meno felice va fatto doppio e non va detto, che la stella cometa esiste, che babbo natale ci guarderà dalla finestra e guarderà anche chi lo snobba, che l’immondizia a natale è doppia, il traffico pure, che i soldi non contano e non valgono quello che credono, che se quello che ho scritto pare un luogo comune in realtà non lo è.
è un luogo, quello sì, e se ne sta tutto bello al caldo, sotto l’albero e in mezzo ai cuori.
buon natale dentro, che fuori poco importa.

bi

giovedì 20 dicembre 2012

un punto di vista è più grande di un punto

poco prima di alzarmi, conto le ore dormite e ripercorro quei luoghi lontani e offuscati, in cui un pezzo essenziale di me è stato di notte. sa tutto di crema al limone ed è vestito di zucchero a velo. il caldo ancora mi stringe a sé e vorrebbe continuare, se solo io restassi, se solo io non l’abbandonassi.
poco prima di scegliere una canzone, ripenso a quella volta in cui vagavo spenta in centro. tutto faceva chiasso, mentre io mi sentivo morire dentro. avevo perso la mia crema al limone. mi ritrovai ad ascoltare musica in un negozio enorme e pieno di luci bianche, con due grosse cuffie nere che non mi coprivano solo le orecchie, ma anche una parte di mente e uno spicchio di cuore. ascoltavo quella voce angelica cantarmi nelle tube, cantare solo per me. intorno era pieno di corpi, eppure io ero sola.
poco prima di mangiare, guardo mio padre e mi ricordo i miei pensieri di allora, solo miei. mangiavo solo le cose che mangiava anche lui, dicevo le cose che diceva lui, mi arrabbiavo come si arrabbiava lui, suonavo la sua chitarra stonando solo perché l’animava lui. poi un giorno ho smesso. ho capito chi fossi e ho tirato fuori con coraggio la disobbedienza e la contestazione. eppure non ho mai abbracciato nessuno come ho abbracciato lui.   
poco prima di svenire, mi alleggerisco. sento sparire il confine tra me e la mia materia e sento di compiere un passo in avanti. non indietro, in avanti. gli occhi si sfibrano e le immagini noiose e regolari sbiadiscono in un liquido puntinato e grigiastro, dai contorni un po’ viola e un po’ no. le orecchie anche. si sfumano in echi sempre più lontani e quello che fino ad allora era di qua in quel momento se ne va al di là. mi siedo o mi sdraio, così non sbatto. tanto io lo so com’è, poi torno. vado un attimo al di là, poi ritorno. ritorno sempre.
poco prima di fine anno, penso sempre che l’anno sia appena iniziato. il mio inizia a settembre, non a gennaio. a gennaio non ho le forze, a gennaio sto al chiuso e sotto le coperte. quello che tutti chiudono in questi giorni, che sarà poi non so più cosa, io lo chiudo ad agosto, prima di andare in vacanza. poi a settembre sento la forza dell’inizio, di quando guardo un foglio bianco e la testa è già piena di parole. è l’attimo prima in cui non me ne viene in mano neanche una per iniziare. poi nasce un fiume.
poco prima di ricomporre i pezzi, mi chiedo se la cosa vada riparata o lasciata a se stessa. i pezzi sono nuova vita, no? un vaso rotto non torna mai più vaso, ci sarà sempre una fetta di spazio tra una scheggia e l’altra, in cui la materia è tornata ad essere aria. i pezzi sanno di vita nuova e per me non occorre ricomporli. basta dare loro un nuovo nome e si sentiranno appena nati, non appena morti.
poco prima di spegnere la luce, penso alla paura del buio. alle volte la sera, quando proprio non ne potevo più, scappavo al piano di sopra per andare in bagno. tutti restavano nel salone, mentre io in solitudine uscivo, accendevo la luce e correvo svelta su per le scale, facendone due per volta. uscita dal bagno, un giorno trovai la luce spenta. richiusi la porta, mentre il cuore si stava per staccare dal resto di me. non mi sono mai fidata del buio, perché non mi ci sono mai sentita sola.
poco prima di coricarmi, mi stendo una crema profumata sulle mani. non è la crema che sa di limone, questa che dico sa di mandorle e non si mangia, semmai si annusa. lascio cadere la testa sul cuscino, una mano sotto, l’altra che mi sfiora il naso. la mia vita è fatta di odori e di profumi e di memorie che profumano di ieri e di aria che è prima un fuori e poi un dentro. il mio è un naso che sa odorare e lo fa con amore e dedizione. ama quello che fa, ama respirare il mondo fuori e portarselo giù, in fondo.
poco prima di addormentarmi, prego. lo facevo con mia madre, dentro al suo letto. ci raccoglievamo sotto le coperte, noi due da sole, e io ripetevo quelle nenie dopo di lei. frase per frase, fino ad impararle, ché non sapevo ancora leggere. sembravano poesie, sembravano un dono dalla sua alla mia bocca. una musica solo nostra, in cui il resto del mondo era solo pensato e non era lì dentro. restava fuori. le mie piccole mani tra le sue, il suo profumo, sentito in altre vite, si attorcigliava come una corda lenta e dolce tra noi due. le mie idee di oggi si costruirono lì, in quei momenti segreti. i punti di vista da cui oggi costruisco ciò che mi circonda partirono da lì, da quegli attimi sbriciolati nelle mie sere con lei. un punto di vista non può essere soltanto un punto. un punto di vista è più grande di un punto. è un punto che racchiude un infinito.

bi
 


[immagine di ari-zuka, tratta da "pop surrealist"]

"è così che muoiono le infanzie, quando i ritorni non sono più possibili perché i ponti tagliati inclinano verso l’instancabile acqua le travi sconnesse nello spazio estraneo. non c’è allora altro rimedio che quello del serpente: abbandonare la pelle nella quale non entriamo più, lasciarla a terra, tra i cespugli, e passare all’età successiva. la vita è breve, ma in essa entra più di quel che siamo in grado di vivere".

josé saramago, “di questo mondo e degli altri”

 
 
 

venerdì 14 dicembre 2012

come si fa una magia?

- come si fa una magia?

- l’ho cercata tante volte, ma non l’ho mai vista.

- io una volta ho visto un mio amico muovere le orecchie.

- come faceva?

- mi guardava fisso negli occhi e le sue pupille sembravano entrare nelle mie. ad un certo punto le sue orecchie hanno cominciato a spingere verso la testa, indietro, forte! si muovevano da sole. sembrava che ballassero, hai presente? si muovevano, mentre lui mi fissava. ho pensato fosse una magia.

- mi sa di sì allora…

- un’altra volta una mia amica ha tirato fuori la lingua e l’ha fatta arrivare fin sopra al naso. così, ma la mia non ci arriva, la vedi?

- nemmeno la mia…

- lei ce la faceva arrivare, su, su in alto fino al naso… fino sopra alla punta, capito? una cosa incredibile, ma io l’ho vista! è tutto vero, da crederci forte. io ho provato tante, tantissime volte a farci arrivare la mia. la mia no, la mia si ferma appena sopra al labbro.

- quindi dev’essere un’altra magia...

- sì e un’altra volta un’altra mia amica ha toccato per terra con il naso, per terra sul pavimento in palestra.

- e come ci è riuscita?

- eravamo seduti per terra, le gambe divaricate. abbiamo tutti tirato le braccia in avanti e siamo scesi con tutto il corpo giù, fin dove potevamo arrivare. lei è arrivata a baciare il pavimento!

- magica!

- sì, magicissima. io ci ho provato e riprovato, mi allenavo come una pazza! niente. mi sono sciolta sempre di più, ma per terra non ci sono mai arrivata.

- magnifica!

- un’altra volta ancora dovevamo saltare contro il muro, verso l’alto. ma in alto, proprio altissimo, dico. io mi sono sforzata tantissimo e non sono mai riuscita a toccare il nastro rosso sui due metri e trenta. mai! mi arrabbiavo, dicevo che no, non era possibile non arrivarci. è una questione di agilità ed elevazione, mi diceva l'allenatore. secondo lui io ne avevo poca, capito? lui no, lui era magico. partiva con una lieve rincorsa, puntava i piedi, dandosi un colpo con le braccia e via! lanciava quelle ali verso il cielo, il corpo lo seguiva e lo incoraggiava, lo sosteneva e lui volava, volava fino premere con tutta la mano destra aperta e schiacciata sul muro a toccare i due metri e settanta…

- settanta? 

- settanta.

- una magia…

- comunque queste sono tutte magie che si vedono, poi ci sono quelle invisibili. te ne sei mai accorto?

- non lo so, ci dovrei pensare…

- io un po’ ci ho pensato e ci sono anche le magie nascoste. quelle che non si fanno con il corpo che salta o che bacia per terra. sono diverse, invisibili.

- e come le vedi?

- te ne accorgi.

- e di cosa mi accorgo?

- dei brividi, per esempio. dei brividi che senti quando una musica ti sfiora e ti attraversa e ti spalanca dentro, quando una mano ti sfiora e ti disegna dei cerchi sulla pelle e la pelle arrossisce, quando la temperatura del corpo zampilla e un’emozione sussulta, quando il suono del cuore pulsa di sentimento e traballa, quando un abbraccio ti stringe e il tempo non esiste più, quando ami ed è per sempre e a prescindere, quando sogni e non tocchi con i piedi dove cammini, quando sei lì che ti vedi che dormi, quando piangi e ti bevi un po’ di te, quando stai su una sedia che ha quattro gambe e invece stai su due, quando succedono cose che cose non sono eppure non sai come chiamarle se non cose.

- quando ti guardi il dito e vedi un al di là.

- sì, proprio così.

 

bi
 


[creazione di os gemeos]
 

mercoledì 12 dicembre 2012

la ragazza che legge

suo nonno ne aveva una nello studio.
si faceva una rampa di scalini stretti e alti, molto faticosi da salire senza corrimano, che infatti c’era: era in legno chiaro, liscio al tatto e ruvido alla vista.
appena finita la scala, si arrivava in un minuscolo pianerottolo, con uno specchio in ottone gentile e ampio proprio di fronte.
vi si specchiava facilmente, nonostante fosse ancora molto piccola.
accanto allo specchio, sulla destra, c’erano due quadri.
in uno era raffigurata in tutta la sua dolcezza una bambina dal viso roseo e un po’ malinconico, con lunghi capelli dorati ed una fascia chiara a tenerli ordinati, tra pensieri eleganti ma poco leggeri. portava una candela accesa in mano.
lei la guardava con ammirazione, eppure, tra le due, sceglieva l’altra.
non quella con la candela, ma quella con il libro.
l’altra se ne stava infatti là seduta in quella poltrona, immersa in una pace sommessa e silenziosa, ingoiata in un mondo parallelo fatto di idee e di fantasia.
la vedeva così bella, così elegante.
deve piacersi molto, pensava tra sé, e deve stare proprio bene lì seduta, in una stanza tutta sua.
arrivava in quel pianerottolo affannata per le scale fatte di corsa e trovava il suo viso riflesso nello specchio di ottone.
non si vedeva certo così raffinata come la ragazza nel quadro, ecco perché si immedesimava proprio in lei.
aveva quei capelli raccolti in un nastro garbato, una postura eretta ma comoda, che gli adulti non avrebbero mai ripreso.
- alza le spalle e rizza le schiena!
le diceva invece suo nonno.
quel grande cuscino alle spalle la accoglieva e coccolava, si vedeva, e lei ne voleva uno uguale a quello, non uno piccolo come il suo.
uno così, uguale.
quella che si fermava ad ammirare senza parole era una riproduzione, è chiaro, non un quadro di valore, ma per lei era l'unica copia sulla terra ed era di suo nonno.
lui era un tipo burbero e nient'affatto simpatico, con quel ché di autoritario e spocchioso che poteva far credere che il quadro fosse un originale.
un giorno la sgridò moltissimo.
era andata a fare un pic-nic con un’amica in cima alla salita, dove finiva la strada asfaltata e cominciava il verde.
- non lo so chi saremo, io vado con elisabetta e il suo cane.
e si erano divertite moltissimo, lei, elisabetta e il suo cane bianco e nero.
era tornata con i calzoncini sporchi e bucati e i piedi un po’ neri, ma rideva ed era contenta, perché aveva corso con il cane e giocato con elisabetta.
- dove siete state fino a quest’ora tarda? siete piccole, avete solo sei anni, lo capisci? cosa dico io a tuo padre se ti dovesse succedere qualcosa, eh?
ma lei non capiva.
cosa sarebbe potuto succedere, con il cane che le controllava a vista, i panini all’olio con il salame e la frittata fatti da sua nonna, elisabetta che era più alta di lei e sembrava pure più grande e il paese che era piccolo, non era una città piena di traffico.
lei si rattristava, senza comprendere.
e tornava lì dal quadro e pensava che le vacanze fossero un momento bellissimo, senza libri e compiti da fare, ma anche che le mancasse molto l’abbraccio caldo di sua mamma e lo sguardo dolce e verde di suo padre.
la ragazza con il libro era bella, molto bella.
così rosa, sottile, educata, quieta.
era certa che lei un giorno sarebbe diventata bella come lei.
e con un incantevole libro tra le dita.

bi



["the reader" di jean honoré fragonard]


martedì 11 dicembre 2012

il natale è dei piccoli




il natale è dei piccoli.
noi adulti siamo solo capaci a creare traffico nei supermercati, a spallarci l'un l'altro nei rumorosissimi centri commerciali, a lamentarci del fatto che i regali siano un obbligo noioso, a spremerci la testa per farne uscire idee regalo che costino poco ma che facciano molto, a dire che quest’anno no, i regali per principio non li facciamo e robe pallosissime così.
i piccoli no.
loro ci insegnano che natale è stupore e incanto.
lo stupore e l’incanto di scrivere una letterina lunga un chilometro con su scritto cose dolcissime, tipo:

“caro babbino, quest’anno sono stata buonissima, quindi vorrei: barbie ironica e intelligente, la casa di barbie ironica e intelligente, le costruzioni della lego grandezza naturale per costruirci lo studio che papà desidera tanto avere a casa nostra, il cicciobello pelato che fa la pipì finta, il cicciobello nero e riccio che insegni all’altro come si fa la pipì nel vasino, il vasino di cicciobello e basta. ti prego, babbino, rispetta quest’ordine qua che ti ho scritto, così se magari ti finiscono i soldi prima di comprare i regali miei - ché c’è pure quella di mia sorella, anzi sì quella leggila prima della mia che è più importante per favore - allora rinuncio ai cicciobelli e al vasino. ti aspettiamo con ansia! ciao e grazie di tutti i regali che riuscirai a regalarci”.

lo stupore e l’incanto di dire:

“no, io non ho paura di babbo natale. io ho paura della befana, perché ha il naso curvo e il neo grosso sulla punta del naso”.
“e chi te lo ha detto che ha un neo grande al naso?”
“ma come chi me l’ha detto, mamma! l’ho vista io! c'è anche un pelo sopra.”


lo stupore e l’incanto di contare i giorni così: meno quindici, meno quattordici, meno tredici, meno dodici, meno undici, meno dieci, meno nove, meno otto, meno sette, meno sei, meno cinque, meno quattro, meno tre, meno due e… ecco il ventiquattro!
lo stupore e l’incanto di chiedere:

“chi verrà a cena la sera che si mangia il panettone e il torrone che stanno sotto l’albero? e poi il giorno vero di natale è vero che nevica sempre? e allora andiamo in montagna così giochiamo con le palle di neve e ci possiamo mettere la tuta pesante con il copriorecchie?”

lo stupore e l’incanto di far finta di addobbare l’albero di natale, che tanto poi le mamme ci ripassano e risistemano tutte la palline e i nastri.
perché per loro c’è un ordine per fare l’albero, ma per i piccoli no: è un caos divertente l’albero, non è un mobile da mostrare a chi viene a casa.
ma questo i grandi non lo capiscono, cioè l’hanno dimenticato.
lo stupore e l’incanto di cercare di restare svegli il ventiquattro sera, dopo il cenone e le robe varie con i grandi, per provare ad incontrare lui: babbo!
se ne stanno nel letto e si dicono:

“non dormo, non dormo, non dormo, non dormo, non dormo, non dormo, non dormo, non dormo…”

e se lo dicono tante volte, perché vogliono vedere com’è fatto, se è uguale a quello che loro disegnano o se è più bello e più secco, se le renne puzzano e come mai non fanno mai la cacca quando babbo entra dentro casa con loro per scaricare i regali.
poi puntualmente s’addormentano prima che lui arrivi.
lo stupore e l’incanto di pensare che comunque, almeno un giorno all’anno, qualcuno s’impegnerà ad essere veramente più buono, come raccontano sul serio nella favola di dickens.
pure loro s’impegnano ad esserlo e ci riescono e sono felici di riuscirci.
lo stupore e l’incanto di dire una preghiera, come vogliono, a chi vogliono, con le parole che vogliono, quando vogliono e quanto vogliono.
lo stupore e l’incanto d’imparare una poesia a memoria da dire la sera a cena, nascondendola sotto al piatto del papà, pure se imparare le poesie a memoria fa schifo, perché a natale è un’altra cosa.
a natale è diverso, dicono loro, i piccoli.
volenti, nolenti, insolenti, natale sta per arrivare e qualcosa di diverso ci sarà di sicuro.
chiediamo ai piccoli: loro ce lo insegneranno.

bi

[la pallina è del mio albero: è una voce fuori dal coro, una palla di natale più mezza che palla.]

lunedì 3 dicembre 2012

nel dubbio io mi vesto ed esco





il destino esiste, eccome.
prendi una donna tutta pronta per uscire: truccata, labbra lustrate, in piedi sicura su due tacchi dodici, sciarpa in pura lana al collo color pastello, cappotto che ormai è dicembre e fa freddo, anelli e cose varie, borsa e chiavi sul tavolo della cucina.
si poggia pochi minuti in equilibrio incerto sul bordo del tavolo e si stende un difficilissimo smalto bordeaux scuro luminoso.
si chiude la porta alle spalle ed esce, sale in macchina e fugge via.
lo smalto fresco, eppure immacolato.
né scheggiato, né rovinato, né scollato e cose così.
resta perfetto.
poi dici che il destino non esiste.
sì, il destino esiste.
un sabato mattina al mercato, gente che corre di qua e di là, piena di buste e di robe ingombranti, banchi che ululano sconti e occasioni che mai nella vita, confusione sopra e sotto i piedi, una mamma che in fretta e furia cerca di fare la spesa e porta con sé la figlia di cinque anni.
se la perde.
la bambina resta immobile sotto al sole cocente nel punto esatto in cui la mamma l’ha lasciata e non si muove per più di mezz’ora.
resta in silenzio.
si mette in ascolto isolando le voci della folla per restare in sintonia soltanto con quella di sua mamma, si guarda intorno attraversando le cose per trovare solo lei, stringe tra le mani a strozzarlo un pezzo di pizza rossa, senza morderlo più.
lei torna.
sua mamma torna e si tuffa su di lei con gli occhi bagnati di lacrime, descrivendo quale grande paura di averla persa per sempre l’abbia colpita in pieno petto, da lasciarla senz’aria.
lei la guarda ancora un po’ così, come un’animella smarrita, e le risponde che no, non doveva preoccuparsi: lei era solo rimasta lì, certa che il destino le avrebbe ricondotte in quel punto preciso, accanto al carrello pieno di spesa.
le ridà la pizza, dicendole che non le va più.
si, sì: il destino esiste.
un giorno ero in macchina.
ho uno stereo vecchissimo, un pezzo da museo degli anni novanta, che se fosse una persona sarebbe un rincoglionito di centodieci anni portati un po’ benino e un po’ no, che si sa che l’apparenza inganna e l’abito non fa il coso.
per alzare o abbassare il volume dovevo sfilarlo, sbatterlo con un colpo secco sul volante, mai due, e riaccenderlo: funzionava, per magia.
ora neanche più quello: ha un volume fisso su ventidue.
posso ascoltarci soltanto la radio e resto sempre su una, perché ormai il display è quasi tutto buio, che se me la perdessi sarei fottuta: mi toccherebbe ascoltare radio maria, che è l’unica che prende anche sotto un traforo.
mettono una canzone bellissima, di quelle che alzerei il volume e mi metterei a cantarla strillando e facendo destra e sinistra con le spalle ben rilassate sullo schienale del sedile, liberando lo sguardo verso il cielo.
così anche un altro giorno, sempre quella, sempre la stessa, sempre più o meno nel primo pomeriggio del venerdì o del sabato, che la mente viaggia più veloce della luce.
e pure un’altra volta, un’altra ancora e un’altra anche…
è il destino, mi dico.
è questo spiffero silenzioso che senti quando ti passa un brivido sulla schiena così intenso da farti contrarre le spalle e ritrarre la spina dorsale.
è la magia dei pezzetti a caso che coincidono e si sincronizzano in quel punto e non in un altro.
che tu ci creda o no, io il destino l’ho visto.
e comunque, nel dubbio, io mi vesto ed esco.

bi

(ah, la canzone è questa...)




[immagine by asuka111 "dear princess", su digital art]