venerdì 28 settembre 2012

esistono persone che ti cambiano la vita

e che dopo che le incontri non ti senti più la stessa e ti cambiano le abitudini e la visione della vita e il modo in cui ti vesti e respiri e sorridi e piangi e ti emozioni e tremi e cammini e ti svegli diversa e non pensi più solo all’uno che sei ma al due che è l'altro…
sta di fatto che uno di questi è bob.
ricordo di aver trascorso lunghissime sere buie, raggomitolando le gambe e i piedi su me stessa nel terrore di avercelo ai piedi del letto, come laura palmer.
capito chi è bob?
ecco, sì, lui in persona proprio lui.
la mia vita all’imbrunire non è stata più la stessa da allora.
anche se di giorno mi sentivo un leone, che se l’avessi incontrato gli avrei staccato uno per uno quegli orribili capelli unti e viscidi fino a fargli uscire le lacrime pure dai pori della pelle, la sera invece me lo rivedevo lì di fronte, ai piedi del letto, con la bocca piena del suo ghigno demoniaco e di quello sguardo cannibale, che hanno infestato il mio immaginario di adolescente sprovveduta per molto tempo e mi hanno fatto perfino dire basta! per sempre alla lettura appassionata di stephen king.
perché infatti un altro è proprio it.
avevo divorato il libro di king in bocconi da cinquanta pagine ognuno, immersa in un mondo parallelo fatto di soffitte e cantine, mondi al di sopra e mondi sotterranei, fughe, batticuori, gole strozzate e senz'aria… ma bastava chiudere il libro per tornare sulla terraferma, aprire i fumetti delle avventure di pimpa e via: tutto scompariva.
fu il film a sconvolgermi. scoprii infatti quanto it fosse fatto di carne ed ossa e non fosse una creatura fluida e intermittente.
c’era. con quel viso giocoso da impietrire qualsiasi bambino al mondo, tranne (forse) king.
poi conobbi kubrick ad un cinema settembrino all’aperto e fu uno choc tremendo: il mio battesimo si chiamava arancia meccanica.
ho problemi con gli sguardi di ghiaccio che ti ingoiano in un azzurro che non è un mare cristallino e trasparente, ma un tunnel senza uscita abitato da angoscia e tachicardia, fatto di panico.
lì non ressi la botta.
dopo essermi quasi accecata entrambi gli occhi a forza di tapparmeli con le dita, dissi al mio amico inorridita:
- portami via quiii! questi sono pazziii!
piansi, anche.
da lì capii che avrei dovuto approfondire le mie scarse conoscenze sul concetto di follia e scoprii un altro mondo, tutt’altro che agghiacciante.
infatti il mio problema era (ed è) un altro: la violenza, davanti alla quale ho delle reazioni a me quasi estranee e sempre differenti.
tuttavia ad oggi ancora non mi sono sublimata con la visione intera di a clockwork orange: mi metto in ginocchio e chiedo perdono davanti all’effigie benedetta di beethoven e stanley, che amo profondamente.
altri problemi seri li ho avuti con cristiana effe e i ragazzi dello zoo di berlino, che hanno nutrito il mio inconscio di eroina e vomito e buchi e siringhe.
capii da subito che io e la droga saremmo state lontane, perché sono una che si caga sotto di brutto. (salvezza).
da allora le strade buie e gli angoli nascosti mi facevano formicolare i piedi poi gli stinchi poi le cosce poi i fianchi poi la schiena poi le spalle poi le braccia poi le mani poi le dita e mi pietrificavano la testa.
cristiana effe era per me un attacco di panico nuovo e diverso, forse per il fatto che fosse una donna e non riuscissi a provare terrore, ma altro sì.
mi ricordai che l’incontro con un’altra donna mi aveva angosciato molto: l’ape magà. non maya, che era una sempre allegra e scanzonata. magà, quella triste e sfigata.
una puntata segnò per sempre il mio rapporto con gli insetti: l’incontro con la mantide religiosa.
da quel dì di non ricordo quando, io e la mantide ci terrorizziamo a vicenda, ma io senz'altro moltissimo di più.
il concetto è che davvero ci sono incontri che ti rendono altro da prima, altro rispetto al tuo personalissimo dove e non sono mica tutti pieni di miele e cicciccì e cuori e fiorellini. ecco.
la paura è una cosa seria, perché sta dentro. non fuori.

bi


[immagine tratta da pop surrealist: mark brown "devil escapes... cut to chase"]

giovedì 27 settembre 2012

pensate se un giorno ci svegliassimo e vivessimo come accade nelle pubblicità

pensate se un giorno ci svegliassimo e vivessimo come accade nelle pubblicità.
ci stiracchieremmo su candide e profumatissime lenzuola pulite (mica quelle che uno normale cambia ogni settimana), un letto superfico pieno di cuscini (che tra un po’ lasciano dormire i cuscini sul letto e si sdraiano sul tappetino), la luce del sole che entra dolcemente dalla finestra (che non si sa come abbiano fatto a dormire bene se non è buio), pregiatissimi mobili chiari (mica quelli di ikea).
e saremmo già truccate. sì.
le donne delle pubblicità sono già tutte belle riposate, pulite, non puzzano, né hanno bisogno di una doccia, hanno pelli perfette e pigiami seducenti e tacchi dieci (oppure girano scalze) e sono perfettamente e leggermente truccate.
perfette, si svegliano già perfette.
entrano in cucina, con la vestaglia che fa pendant con il pigiama e che vola lasciando una scia luminosa dietro di sé, e hanno tutta la famiglia bell’e sorridente che le attende…
due figli (mai uno in più o uno in meno, percarità -che ansia-) già lavati pettinati profumati vestiti abbinati, che mangiano nutella senza sporcarsi intorno alla bocca e senza imbrattare le tovagliette, che sembrano di garza e seta, non di cotone (i figli ideali di mia madre, in pratica), i quali, prima di alzarsi di tavola, la baciano e si alzano svelti, perché non vedono l’ora di andare a scuola.
ripeto: non vedono l’ora di andare a scuola.
poi c’è lui, marito: leggermente spettinato, sbarbato (si vede che a lui la barba non cresce), vestito sportivo-scic (cioè chic) e che la guarda con gl’occhi dell’ammore (cioè amore) e le versa latte e caffè nell’ampia tazza bianca di porcellana, che se cade quella sono sette anni di povertà, non di disgrazia.
comoda, no? per tutti i giorni, dico.
poi si lavano tutti e quattro insieme i denti nel loro bagno di trenta metri quadrati (ce l'avete pure voi, no?) e si specchiano ridendo, senza sgocciolare, senza appiccicarsi il dentifricio bianco sulla maglietta nera (che io invece sempre), senza avere la sensibilità dell’acqua fresca ai denti, felici, tutti e quattro felici da fare senso.
vanno in macchina e la macchina brilla come una stella a mezzanotte e non trovano mai traffico e se il traffico c’è hanno accanto l’uomo o la donna più belli del mondo e il semaforo è sempre verde e se è rosso ti guardano e ti strizzano l’occhiolino ridendo tutti pieni di denti bianchi che sembrano cinquantaquattro e non ventotto o trentadue se hai ancora quelli del giudizio e la macchina costa pochissimo che pare te la regalino e se ti fai bene i conti invece la fregatura c’è ma non è chiara e arrivano e trovano subito parcheggio e ci si infilano con una manovra sola e nessuno dietro che smadonna o gli frega il posto e scendono che sembrano gli dei dell’olimpo sulla terra che manco si schifano di starci sulla terra e pranzano e si mettono in bocca una gommetta da masticare e la carie è scongiurata per sempre e nel pomeriggio non lavorano ma si prendono caffè e tè in posti all’aperto in cui non piove mai e se piove e starnutiscono ingoiano un affare dentro l’acqua calda e la sera vanno a un concerto tutti pimpanti e zeppi d’energia più di prima.
cioè, fico, no? conviene troppo svegliarsi e vivere come accade nelle pubblicità.
mica come noi comuni mortali che entriamo in macchina e la macchina è sporca dentro e fuori e senza soluzione perché al lavaggio alle sette di sera (cioè quando possiamo andarci noi) c’è la fila che metà basta e il traffico c’ammazza e ci toglie ogni giorno due ore di vita e il semaforo è sempre rosso anzi arancione che sta per scattare e ci fotte e ci becchiamo pure la multa e i nostri vicini di macchina c’hanno il muso nero più lungo e nero del nostro nero che chi sa se si sono lavati i denti che la bocca non la aprono manco morti se non per urlarci che è verde e ci dobbiamo muovere e la macchina è vecchia e sale la temperatura dell’acqua e le rate costano care perché non ce ne fanno più fare solo trentasei ma ci fanno finanziare tutto (perché non abbiamo più una lira ma non lo sappiamo ancora) e paghiamo un mutuo di sei anni (dico sei) per un cesso di macchina che invecchia ogni giorno più veloce di quanto invecchiamo noi che la paghiamo e arriviamo e non troviamo mai parcheggio se non a un chilometro di distanza e a un euro e cinquanta l’ora e ci mettiamo un quarto d’ora per fare manovra solo perché quello dietro ci si è già appiccicato al culo perché ha fretta e smadonna e ci suona o ci frega il posto perché noi (onesti e rispettosi) facciamo manovra perbene di culo mentre lui c’entra da davanti e c’attacchiamo perché tanto lui già se n’è andato e poi trovato il parcheggio per miracolo scendiamo che siamo tumefatti che sembriamo gente dei gironi danteschi messa male o che ha un contrappasso di brutto e pranziamo e ci puzza il fiato perché quella della tavola calda usa l’aglio in polvere e avvelena il palato a noi e le mucose nasali a chi lavora con noi e le gomme da masticare dopo un minuto sono belle che andate e sanno di plastica riciclata e uranio impoverito e nel pomeriggio lavoriamo eccome altroché caffè e tè e cioccolati in posti fichi con le siepi e le candele accese e se piove ci becchiamo subito una bella influenza o una tracheite che combattiamo a botte di paracetamolo e antibiotici perché non abbiamo tempo di farci una cura preventiva omeopatica o magari non ce ne frega niente di farcela e la sera sudiamo come maiali per far abbassare i trentanove di febbre.
pensate se un giorno ci svegliassimo e vivessimo come accade nelle pubblicità.
sapete che botta di culo…

bi



mercoledì 26 settembre 2012

dimmi che c’entra l’aceto di mele

i posti sicuri sono talmente certi che quasi più nessuno li ritrova. intendo dire quando nascondi qualcosa, tipo.
tu gliela affidi, al posto sicuro, e lui ti prende in parola: la inghiotte.
e poi quale posto sicuro dei tanti posti sicuri al mondo sarà quello a cui ho prestato il mio amatissimo olio profumato al legno di rosa? e tutte le candeline bianche e viola?
perché quando arriva l’autunno a me piace rinchiudermi in casa la sera e scaldare questi oli profumosissimi, così poi sogno meglio e sogno rosa. l’olio di rosa è infatti il mio preferito.   
ci vorrebbe un eroe, perché solo gli eroi, che infatti sono eroi, sanno tutto e salvano tutte le situazioni e mi restituirebbero, volando con il loro lungo mantello scuro, il mio olio di rosa.

il concetto di leccarsi le ferite è deficiente. nel senso che manca-di. è mancante della magia che gli animali hanno, ma noi no!, di leccare ed asciugare una ferita, curandola e guarendola per sempre.
noi invece quando lecchiamo bagniamo e non va bene, quindi che cavolo ci mettiamo a leccarci le ferite? che così non si cicatrizzeranno mai?
dico io, che me le sono leccate per una vita.
basta leccare le ferite! lasciamolo fare agli animali che sono capaci e magici, noi facciamo che prendiamo un po’ di olio dell'albero del tè, ci disinfettiamo e via.
scordiamoci della ferita e amen.

la parola ferragosto non mi viene proprio, tant'è vero che io lo chiamo capodanno.
non c’è mai stata una volta una che io lo abbia chiamato per bene: fer-ra-go-sto.
niente, mai, sempre ca-po-dan-no.
oltretutto concettualmente non è proprio sbagliato, perché per me l’anno è sempre cominciato a settembre, mai a gennaio.
gennaio è gennaio e settembre è inizio anno e quindi ferragosto è capodanno e capodanno no.
non mi piace la parola ferragosto. e neanche emoticon, antibiotico, sicurezza, persona speciale, società, ba’, esclusivo, vintage, finanza, vediamoci, psicologo, razionalismo.
sono una strana forte, sì.   

uno una volta mi ha aperto la macchina e mi ha rubato lo stradario. un a-zeta tascabile di roma, capito?
mica lo stereo, i documenti, lo specchietto, la macchina… no, lo stradario, un oggetto (ormai) d’altri tempi.
poi la mattina ho aperto la macchina e l’ho trovata tutta piena di roba in disordine: documenti buttati sul sedile, cassettino a penzoloni, frontalino dello stereo buttato per terra…
ma quello ci credo: è più vecchio di me, momenti.
il ladro avrà detto:
- oddio che poveraccia questa con lo stereo a musicassette! è pure mezzo rotto... facciamo che mi prendo solo lo stradario, fa sempre comodo.
sarà stato uno d’altri tempi come me.

vorrei annusare di nuovo la rosa dentro casa, contare quante olive sono nate nella pianta dell’olivo sul balcone che ho chiamato olivia, comprare l’aceto di mele e lavarmici i capelli, abbracciare un elefante, riuscire ad andare due volte a settimana all’università, stendere la ruga arrabbiata che ho in mezzo agli occhi, non schifarmi troppo e riderci su, la pioggia forte, il sole il sabato, il vino bianco aromatico sempre freddo in frigo, ricordarmi il cucchiaino di miele agli agrumi la mattina prima di bere il latte, leggere i miei due nuovi libri di simone de beauvoir, non avere bisogno dei soldi, partire tutti i venerdì per l’abruzzo, varcare la soglia, passeggiare per i boschi e riconoscere i funghi senza staccarli e un sacco di altre cose che mi scriverò sull’agenda, se no qui arriviamo a capodanno un'altra volta...  
visto che c’entra l’aceto di mele?
c’entra sempre tutto quello che ci vuoi mettere nelle cose.
e ciao.

bi



["enchanted evening", di philip straub]

martedì 25 settembre 2012

io conosco Salvatore Iaconesi

io conosco Salvatore Iaconesi.
perché sono iscritta ad un social network, perché studio comunicazione e comunicazione digitale e nuovi media, perché so chi è, cosa fa, cosa studia e come lo insegna.

"Salvatore ha un tumore al cervello".

così dice lui stesso di sé e dell'esperienza che sta vivendo.
molti, forse appartenenti a generazioni precedenti alla nostra, ancora hanno pudore davanti agli eventi nefasti della vita, quali sono le malattie, e le nascondono.
nascondono al mondo il loro essere malati, come se la malattia fosse una condizione umiliante.
molti, forse per paura, neanche pronunciano le parole cancro e tumore.
preferiscono dire brutto male.
Salvatore no.
lo chiama cancro e spiega a tutti che ce l'ha al cervello.
e dice anche:

"Prendete le informazioni sul mio male, se ne avete voglia, e datemi una CURA: fateci un video, un'opera d'arte, una mappa, un testo, una poesia, un gioco, oppure provate a capire come risolvere il mio problema di salute."

bene, Salvatore, questo è il mio piccolo e breve contributo alla tua esperienza, che oggi è tua e ieri è stata di qualcun altro, di fronte alla quale non mi sento né indifferente, né insensibile.
io purtroppo soluzioni non ne ho.
tuttavia credo nella spiritualità della condivisione, spiritualità intesa come terreno polveroso tra sé e l'Altro, come interstizio nel quale si supera l'Ego e ci si ibrida nell'Altro.

t'abbraccio, bi.

(invito tutti a connettersi al sito open source di Salvatore e ad ascoltare la sua storia, che è anche un po' nostra.)

http://www.artisopensource.net/cure/



lunedì 24 settembre 2012

e guardo il mondo da un (o)blog mi annoio un po’

le orecchie ai bordi dei fogli mi mettono ancora l’ansia. quando scrivo, dico. poi perché mai si chiamano orecchie, se sono spiegazzature da quattro soldi e non sentono? allora mi ingegno e ci metto su un bel libro peso massimo, oppure una pinzetta che tenga più pagine insieme, oppure ruoto il bordo di centottanta gradi e creo altre pieghe simmetriche. niente: orecchie restano lì, fanatiche e orgogliose di farsi chiamare orecchie, pure se orecchie non sono. che ansia.

il latte a lunga conservazione scade prima della lunga conservazione. quindi quel lunga rappresenta un tempo assolutamente relativo. ed è una truffa, perché mica te lo spiegano come si deve che cosa intendano. poi un giorno, scritta in mini-minuscolo in basso-bassissimo a sinistra, scopro la scritta “consumare entro tre giorni dall’apertura”. hai capito, tu? cioè io? una distratta come me, chiaramente, se lo beve tutto il latte a lunga conservazione che scade prima della lunga conservazione. eccetera, eccetera.

i cinghiali non sono tutti carini e simpatici e sono pure dei gemelli ascendente ariete. gemelli perché sono distratti pure loro, camminano e non sanno manco dove vanno, perché non si chiedono cosa siano quegli oggetti non identificati con i fari che ogni tanto li illuminano e che camminano per strada dove passano pure loro, perché non sanno che per strada di notte devono stare attenti se non calpestano la terra ma mettono quelle zampette da maialino sull’asfalto, perché corrono-si fermano-corrono-si fermano-strillano e ti fanno prendere i colpi. ariete perché sono duri. tanto duri.

io e l’autunno d’ora in poi dobbiamo fare come ladyhawke e il lupo. perché noi due ci amiamo, molto, ma non ci possiamo incontrare. se no ogni anno autunno mi travolge e la maledizione della morte simbolica mi annienta a suon di febbre altissima, ossa rotte dal dolore e gola infiammata e sofferente. dura sì qualche giorno, ma è come se fosse un’eternità. un’eternità andata a malora.

sono in un momento fortemente decadente, mi fa schifo un po’ tutto, non tollero i più e pure i meno e i per e i divisi. ho una discreta faccia da schiaffi, che proprio mi prenderei a schiaffi da sola a suon di malrovesci scamuffi e traditori, producendo un ritmo un po’ afro e un po’ punk. comunque c’è ancora del buono in me e credo pure del bello. esco un attimo, lo cerco, gli faccio un cazziatone e lo riporto al posto suo. nel frattempo amatemi, se vi va, così come appaio: un po’ ni e un po’ no e con pochi ed incertissimi sì.

i ritorni mi intristiscono sempre molto, ve l'ho detto.
perciò quello di oggi è un ritorno breve e in ordine sparso, così non mi trova.

a presto, bi

“nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.”
(tratto dal libro della genesi della... bibbia mia)





[immagine tratta da "digital art", ideata da elle du pomme]

venerdì 14 settembre 2012

per aspera ad astra

è sera, le mie gambe pesano come macigni.
mi dico che è il momento giusto per voltarmi a guardare il giorno appena trascorso, quello di agosto, il diciotto, e girandomi mi sento appagata e felice: la montagna vista di notte, sotto il bacio magico di una luna quasi perfettamente tonda, mi aveva lasciato talmente muta e sospesa, che ancora dovevo mettere ordine a tutte le emozioni provate.
eravamo partiti che erano appena le quattro del mattino, la mia gola era protetta da una sciarpa leggera di cotone rosso ciliegia, il resto del corpo vestito pesante, fatta eccezione per le braccia nude, in movimento e concentrate ad impugnare due vecchie racchette da montagna. sulla schiena uno zaino verde militare corto e lasciato piuttosto leggero: ci avevo buttato dentro soltanto il pane in cassetta con la frittata, un altro con la nutella, poca acqua, dei fazzoletti di carta e l’immancabile macchinetta fotografica.
stavamo cominciando a salire.
e salire era fatica, subito.
l’aria era fresca e asciutta ed il silenzio incorniciava il nostro affanno, che aumentava ad ogni manciata di passi, mentre gli occhi stavano cercando di abituarsi a quegli incantevoli bui notturni sui ginepri e una luna sentinella restava immobile sopra le nostre teste e ci rischiarava.
sentivo pian piano il fresco scomparire dalle braccia per lasciare spazio ad un velo roseo di sudore.
stavamo continuando a salire ancora.
avevamo incontrato tre giovani muli con sei grossi occhi interrogativi e curiosi, che erano rimasti nel margine di un sentiero che noi dovevamo calpestare con grande attenzione, a differenza loro che s’inerpicavano ovunque e senza esitazione: mi ero fermata divertita e loro anche sembravano esserlo, vedendomi impacciata e probabilmente troppo vestita.
ogni tanto la salita ci lasciava riprendere fiato per brevi passi, in uno spazio che somigliava alla pianura, ma che in realtà continuava ad ergersi e a farci arrampicare.
la fatica cresceva.
la luna era appena scomparsa: eravamo entrati nel bosco di faggi e conifere.
è quello che vedo sempre da lontano, sognante e ad occhi nudi, e che appare come una grossa macchia allungata verso l’alto, irregolare e piena, e ne posso solo immaginare l’odore.
in quel momento potevo finalmente annusarlo: profumava di sogno e di sforzo, di desiderio ed intimità, di sacrificio e gloria, ecco di che profumava. era carico di vita, in parte visibile e in parte no, e a me pareva di sentirla con le orecchie e percepirla con gli occhi se solo concentravo lo sguardo fisso altrove...
un sentiero ripido e nascosto, fatto di piccole esse da percorrere in un’oretta circa, ci stava sputando fuori verso una luce tutta nuova: quella dell’alba, del sole che voleva sbrigarsi a montare su in alto al più presto, per buttare i suoi occhi sulla luna. potevano incontrarsi e amoreggiare per qualche ora.
verso le sei, sotto un bagliore celestino umettato e salato, senza parole, senza fiato, quasi esanimi ci stavamo sedendo sul bordo della fonte, per fare la prima breve sosta e bere un po’ d’acqua. un vento pungente e diverso ci toccava ed io, togliendomi lo zaino, avevo scoperto una schiena zuppa di sudore. la maglietta era da cambiare e la felpa da infilare alla svelta, ma soprattutto per non perdersi lo spettacolo tutt’intorno.
il panorama era un incanto: le montagne sotto di noi erano dipinte di tutti toni di colore tra il grigio e un azzurro tenue e si sfumavamo nel rosa di un cielo illuminato dalla prima luce. al di sotto il nostro paese ancora spento e addormentato, un triangolo storto che finiva a ferro di cavallo e si confondeva nel verde scuro della valle ci appariva più piccolo e più lontano e più indefinito da lassù e io già mi sentivo al di sopra di una realtà che conoscevo bene.
stavo respirando un’altra energia.
la sosta era stata breve e già stavamo risalendo, con un pensiero fisso: raggiungere entro le sette il rifugio. e proprio alle sette in punto, di fronte a un sole paglierino appena spuntato eppure già alto, calpestando un’erba bagnata di rugiada ancorata a piccoli massi candidi e lisci come il marmo, soddisfatti e ancora un po’ intontiti dal sonno e dai nostri fiati cortissimi e sfiniti ed ansimanti avevamo svalicato e raggiunto la piana dove al centro, protetto e riparato, ci aspettava il rifugio già assolato.
la prima meta era finalmente raggiunta. 

bi

(continuerà, salendo ancora). 




[immagine di marco tarascio
"follow the white deer"
pop surrealism]


"tutto quello che siamo lo portiamo con noi nel viaggio.
portiamo con noi la casa della nostra anima,
come fa una tartaruga con la sua corazza.
in verità, il viaggio attraverso i paesi del mondo
è per l'uomo un viaggio simbolico.
ovunque vada è la propria anima che sta cercando.
per questo l'uomo deve poter viaggiare."

(tratto da  "tempo di viaggio" di a. tarkovskij).

mercoledì 12 settembre 2012

la donna dalla casacca beige

posò la sua borsa capiente con cura ed attenzione accanto a sé, mantenendo stretta tra le dita una lettera. era di spalle e in quell’attesa lasciava riposare il peso del corpo sulla gamba sinistra, il fianco leggermente rialzato, mentre con la destra sfiorava timidamente l’esile piede dell’uomo che la accompagnava.
una casacca dai toni del beige adornata da fiori color crema quasi impercettibili abbracciava le sue larghe spalle e le addolciva il punto vita, una lunga gonna corvina con minuscole cuciture stondate e scure celava due gambe nerborute, giungendo a nasconderle le caviglie un po’ ispessite e piuttosto pallide.
toccò a lei. la donna dalla casacca beige imbracciò con energia la borsa lasciata in disparte e avanzò di tre passi, lenti e poco decisi.
l’uomo che la accompagnava la seguì risoluto e subito le cinse le spalle con il braccio, andando a disegnare un arco di protezione ed esortazione.

- devo spedire questa lettera, quant’è?

parlava come avrebbe fatto un’altra in fila per comprare del pane ancora da pesare. agitava nervosamente tutte e dieci le dita un po’ corte e robuste: aveva appena abbandonato la sua lettera ed impaziente sembrava soffrirne già l'assenza.
l’uomo che la accompagnava si voltò a guardarla. sorrise appena, la strinse un po’ al suo petto e lei cedette morbidamente. poi allentò la presa, fece scivolare in una lenta e trasparente carezza la mano lungo il braccio di lei e la riportò su, sfiorandole sottilmente la testa.
non i capelli: un foulard nero sottile come la seta le avvolgeva delicatamente il capo e le proteggeva il collo.

- sono un euro e sessanta.

era dunque deciso: la lettera doveva volare a destinazione.
sospirò e si voltò verso l’uomo che la accompagnava, che s’infilò una mano in tasca e, dopo avervi frugato per un po’, vi sfilò delle monete.
intanto la donna dalla casacca beige sembrava agitarsi, ancheggiando impaziente, portando le mani alle labbra serrate, prima una, poi l’altra, sfregandosi nervosamente all’altezza dei reni, sfuggendo alle occhiate sicure e determinate dell’uomo che la accompagnava, voltandosi a sinistra con gli occhi alla ricerca di un punto difficile da scorgere.
si spostò la lunga gonna corvina e quel movimento mise in luce i suoi piedi: indossava un paio di ballerine bianche con la punta nera e lucida, basse e molto scollate.
due piedi costretti e gonfi parevano cercare aria e luce, sembravano voler straripare.
guardai meglio e la pelle che alle caviglie sembrava chiara appariva in quel punto quasi violacea. mi tolsi con fare interrogativo gli occhiali da sole.
non era una pelle violacea: il bordo dei piedi era pieno di grossi rigonfiamenti perfettamente tondi, grandi vesciche tinte di porpora dall’interno coloravano con forza quasi violenta i suoi piedi, almeno nella parte visibile dalla scollatura delle ballerine.
i suoi piedi traboccavano in modo dirompente.
il cuore mi fece un sussulto.
pensai che forse quelle ballerine volessero ballare ma non potessero farlo, che forse quei piedi volessero affacciarsi e stiracchiarsi e respirare vita ma non potessero farlo, che forse quella pelle volesse uscire allo scoperto verso il mondo, ma non potesse farlo. forse.
la donna dalla casacca beige era coperta dappertutto e senza vie d’uscita, dalla testa ai piedi, senza colore, senza ossigeno, senza libertà, fatta eccezione per il viso, le mani ed il collo del piede.
pagarono e la lettera iniziò il suo viaggio a destinazione.
i due si spostarono per far passare me, ma la donna dalla casacca beige ancora sembrava indugiare.
aspettai.
lui le afferrò la mano, la portò a sé, le fece una confidenza nell'orecchio, i piedi della donna inciamparono incerti, lui la aiutò, la donna portò i suoi occhi verso l’uscita, poi si voltò ancora una volta indietro verso la sua lettera, lui le sorrise e quel sorriso familiare e rassicurante, probabilmente, la convinse.
lo donna dalla casacca beige e l’uomo che la accompagnava uscirono.
era il mio turno.
feci tre passi avanti e mi voltai: non li vidi più.
il cuore sussultò ancora una volta.
mi rattristai.

bi




[la sposa con il ventaglio, di marc chagall]

martedì 11 settembre 2012

storia di un luogo chiamato amore

- qual è il segreto per restare insieme quarant’anni?
- ascoltare insieme la sua musica classica e i miei celentano e morandi. dentro la stessa macchina, dentro casa con lo stesso stereo. che poi sono quarantasei: sei anni di fidanzamento ufficiale, quando si fece più di centocinquanta chilometri con la cinquecento di suo padre, in mezzo alla neve alta e senza autostrada. era san valentino.

abbassò lo sguardo e lo fece scivolare giù, immergendolo nel pavimento. il suo naso sottile creò un’ombra sulle labbra, che trattennero altre parole.
era volata lì, verso quel san valentino.
e io la vedevo.

- fuggiva da me appena possibile, perché sapeva che ero lì ad aspettarlo. e non si faceva aspettare poi molto. altre volte invece l’ho aspettato a lungo, senza che arrivasse mai. rubava la macchina a suo padre, neanche ne aveva ancora una tutta per sé. l’amore è un atto di coraggio, sai? un giorno ci lasciammo. il distacco durò sei mesi, forse di più, poi lui tornò e mi giurò che sarebbe stato per sempre, se io l’avessi voluto.
“o me, o la musica.”
gli risposi, senza guardarlo. sapevo cosa gli stessi chiedendo. e lui fu coraggioso: scelse me. era la sua assenza che non potevo sopportare, il fatto che non ci fosse, il fatto che mi sentissi abbandonata mentre lui trascorreva le sue serate fuori tra musica e musicisti. in un mondo in cui io non avevo spazio. continuò a suonare comunque, ma in modo diverso: suonò per me, per l’aria di casa nostra, per insegnare un’arte ad altri. con passione, la sua.
- erano bellissimi lui, il suo violino e la sua folta barba nera.
- sì, eccome! ci sposammo un lunedì pomeriggio, l’undici settembre del settantadue, con poco ma comunque con ciò che fosse sufficiente per amarci. anche per litigare, scontrarci, ammusarci, ritrovarci, abbracciarci, perdonarci e perderci nei nostri sguardi sorridenti, ancora una volta. quel giorno era bellissimo ed il vestito glielo regalai io: un mezzo tait nero, una sottile camicia bianca ed un cravattino nero nascosto sotto il collo. portò i suoi occhi verdi bagnati dalla commozione fino ai miei. e ci scambiammo il nostro per sempre.

quel giorno anche lei era uno splendore, accompagnata da suo fratello, nell’assenza di un padre mancato troppo presto.
il suo sguardo lo gridava in silenzio: “avrei voluto mio padre alla mia destra”.
a lui dedicò un trucco azzurro come il cielo e delle rose chiare appuntate su una lunga veste candida, liscia e raffinata.
se le mise anche in testa e profumava di mancanza e bellezza.
tutta.

- siamo il giorno e la notte, eppure non ci siamo arresi. non mi sono arresa.

e sottolineò quel mi, portando in alto le sopracciglia nere e ben disegnate, incantandosi in un movimento oscillatorio e regolare del mento dal basso verso l’alto, dall’alto verso il basso, in un moto perpetuo che in quel momento generava un’energia cosmica che ci avvolgeva.
avevano sofferto entrambi molto e non c’era alcun bisogno di dirlo a parole.
eppure avevano sempre avuto il potere di tramutare un dispiacere in un nuovo inizio.

- ci si sceglie e ci si ama. incondizionatamente, chiaro? sono le anime a scegliersi e i corpi le seguono senza indugio. e quando ci è capitato di esitare, sono corsa a cercare mio marito, l'ho fermato all’ingresso di casa e l'ho interrogato con lo sguardo. glielo dicevo che ero lì, che la comunanza avrebbe vinto sulla differenza, e glielo dicevo quanto lo amavo. anche in silenzio. e lo ha fatto anche lui con il suo, di silenzio. ci si ama anche così, che le parole non servono.
- qual è la verità del vostro amore, dunque?
- la nostra verità è che devi gridare, se l’amore grida forte, e che non devi smettere mai di guardare verso la stessa direzione.
- e se uno distoglie lo sguardo?
- l’altro dev’essere bravo ad accorgersene, andarselo a riprendere e riportarlo lì. il nostro amore non è un quando, è un dove da vivere e arredare insieme. questi quarant'anni sono un luogo chiamato amore.

uscì poco dopo, uscì assieme a lui.
lui le prese la mano, lei gliela strinse alla sua.
la sera a letto lei gli diede la buona notte, allungandogli un bacio sulle labbra e poggiando i piedi caldi sui suoi, sempre gelidi.
lui si scaldò.
lei gli chiese di abbassare il volume della tivù, lui lo abbassò.
lui la chiamò amore, con l’ardore di un eterno schiodato dal tempo, e lei lo sognò quella stessa notte.
non sognò un quando, sognò un dove

(a mio padre e mia madre)

bi



[immagine tratta dal film "ferro 3 la casa vuota" di kim ki-duk]

lunedì 10 settembre 2012

diario di un giorno qualunque di una gemelli qualunque



fossi in voi, ci starei attenta a fare figli nati sotto il segno dei gemelli.

per esempio va via la luce.
a tutto il quartiere, dico, va via la corrente e cominciano ad ululare ossessivamente allarmi e robe isteriche di questo genere.
- è una cospirazione internazionale, sicuro.
dice una dei gemelli.
nel frattempo, trascorre un’ora a) senza fare colazione, perché i fornelli sono elettrici e l’elettricità è morta, b) aprendo lo sportello del quadro elettrico generale e chiudendolo all’istante, disegnandosi un’espressione interrogativa sul volto, c) lavandosi con l’acqua fredda, d) riaprendo lo sportello del quadro elettrico generale e richiudendolo, disegnandosi un’espressione di collera sul volto, poiché nulla (nel frattempo) è mutato lì dentro, e) truccandosi con una torcia a batterie puntata sullo specchio del bagno e, appena finita l’opera muraria, pigliando uno specchio, uscendo in balcone, specchiandosi (senza notare il vicino che impaurito la guarda con orrore) e facendo una smorfia che equivale a dire “più o meno”, f) aprendo per la terza volta lo sportello del quadro elettrico generale e azionando un pulsante a caso: niente, g) affliggendosi per il frigorifero ed i suoi abitanti, lasciati al caldo e al buio, h) uscendo, sbattendo la porta e dicendo parolacce, inciampando due volte (senza cadere) per le scale.
ma torniamo un attimo al concetto del quadro elettrico: troppe cose lì dentro che vivono di vita propria e non ci si capisce un’acca.
- hai riattaccato il salvavita che è scattato?
- penso di sì, ma non è successo niente.
- che vuol dire penso di sì? o sì, o no.
perché lei ha mosso una leva a caso da “i” a “o”. niente.
e allora da “o” a “i”. sempre niente.
perché chiunque penserebbe a controllare minuziosamente tutti i vari pulsanti, per vedere se si trovino rivolti verso le lettere e i numeri giusti, per cui “i” sta per acceso e “1” pure.
non lei, lei è dei gemelli.
riflette sulla simbologia della “i” e della “o”, che insieme fanno “io” e dice che il quadro elettrico oscilla tra + e – il proprio “io”.
e niente, non c’è via d’uscita e, soprattutto, la luce non torna.

per esempio mettiamo che una dei gemelli stia mangiando:
- mettiti un tovagliolo davanti, se no ti schizzi.
- porti sfiga, tu.
e si schizza.
dice parolacce.
poi resta sporca, per principio.
- metti un tovagliolo di carta sotto la fetta biscottata, ché la marmellata macchia.
- ma c’è la tovaglia, a che serve il tovagliolo di carta?
- così non sporchi la tovaglia.
si affligge, perché la tovaglia manco può fare la tovaglia, sentendosi tovaglia fino in fondo.
le cade, la marmellata (ma anche il sugo, il brodo, il vino o quello che sia).
- e cosa avrei potuto mettere sopra al tovagliolo di carta, per non sporcarlo?
chiede a qualcun altro, mentre quel qualcun altro si è già incazzato.

per esempio una dei gemelli trova la terra nel balcone.
- è sempre lui: merlo!
viene, canta, saltella, gira lo sguardo a destra, di scatto lo volta a sinistra, si sente osservato e sta immobile, si sente tranquillo e va lì: s’immerge dentro il grande vaso con la terra morbida e scura.
la annusa, la smuove, ci balla un po’ dentro, la prende col becco, ancora saltella, ne prende altra col becco e soddisfatto va via.
il giorno dopo torna. e ancora: annusa la terra, la smuove, ci balla un po’ dentro, la prende col becco, ancora saltella, ne prende altra col becco e soddisfatto va via.
il giorno dopo ancora ritorna: annusa la terra, la smuove, ci balla un po’ dentro, la prende col becco, ancora saltella, ne prende altra col becco e soddisfatto va via.
sentite il ritmo del ballo del merlo?
lei sì e pensa:
- è giusto, è nella natura delle cose. come fa a farsi un nido, d’altronde, se non va alla ricerca della terra perduta? poverino.
e intanto pulisce, dice parolacce, sbraita, ma tanto lo sa: è nella natura delle cose.
passa al piano bi: costruisce uno spaventa-merli.
e va pure a dirlo in giro, piena d’orgoglio, dicendo alle amiche che, se vogliono, lei può costruire loro uno spaventa-merli, se soltanto ne avessero bisogno:
- basta che me lo chiedi con un giorno d’anticipo, ecco.

per esempio vedi una dei gemelli che se ne sta a mani giunte, persa nei suoi pensieri, il capo leggermente piegato a destra e lo sguardo fisso sulle sue mani.
pensi che stia pregando, con quelle sue mani piene di dita giunte ed intrecciate ad arte, e la guardi con tenerezza, pensando a quanto sia bello il suo gesto e ti chiedi per chi stia pregando.
in realtà, no: lei sta controllando se il suo cervello funzioni dando precedenza all’emisfero destro o a quello sinistro.
sì, giunte le mani ed incrociate le dita, controlla quale dei due pollici chiuda la stretta, se quello destro o quello sinistro: se a chiudere la fila è il destro, allora l'emisfero cerebrale prevalente è il sinistro.
chiaro, no?

per esempio una dei gemelli va a buttare l’immondizia: è sera, l’aria è fresca, si trascina stanca e già assonnata, nonostante non siano ancora le dieci.
incontra il signor l., ci parla, sorridono e si raccontano della bellezza del mare, dell’incanto delle montagne e della poesia nascosta nei tramonti estivi…
poi ecco che va a buttare l’immondizia.
un gesto veloce e quasi automatico, anzi proprio meccanico, mentre si volta elegante e sognante e già si dirige verso casa.
- oddio… le chiavi!
grida tra sé, mentre un film terrificante le scorre davanti agli occhi, in uno stop motion di immagini in bianco e nero con schizzi di sangue rosso rubino qua e là.
le chiavi le ha buttate lì, con tutta l’immondizia.
il resto è inutile che ve lo dica.
comunque, riesce miracolosamente a tornare a casa sana e salva, lei e le sue stupide chiavi.

per esempio una dei gemelli è una che sicuramente ha letto “uno, nessuno e centomila” e, tanto lo aveva già capito dal titolo, si è sentita discriminata.
lei è dei gemelli e non è che, come pensano quelli che non pensano affatto, lei abbia una doppia personalità.
lei, come minimo, è in due già da sé, che un altro proprio neanche servirebbe.
- quel titolo ghettizza tutti i gemelli!
che uno non sono, nessuno nemmeno, ma centomila sì.
uno dei gemelli ci si rispecchia per un terzo e questa è una vera ingiustizia del mondo.

per esempio una dei gemelli è una che, se pensa alla proprie radici, non le trova per terra ben piantate nel marrone del fango, ma piuttosto nelle nuvole.
e se il cielo è sereno, nelle nuvole che c’erano il giorno prima, o quello prima ancora.
ha le radici ben piantate nell’aria.

insomma, capito, no?
evitate di fare figli dei gemelli, fidatevi.
e se proprio non resistete, sappiate che i gemelli non vanno compresi, studiati, messi alla prova, giudicati, analizzati, misurati, calpestati, contati se sono due o uno solo.
vanno amati, questo sì.
sorridendo.

bi

[immagine tratta da "pop surrealist"]

mercoledì 5 settembre 2012

ritrovamenti, seconda parte.

le parve di rivedersi esattamente lì.
folti capelli corti, occhi paglierini veloci ed attenti, un paio di calzoncini blu con tasche zeppe di segreti, una canottiera bianca a coste ricucita al centro della schiena, sandali chiusi blu con due occhi sbiechi al centro, tutti intenti ad osservare pure quelli, tutti concentrati a scovare altri tesori.
tipo una crostata fatta di una marmellata senza nome, scura, profumata di famiglia e d’estate, la stessa che trovava dentro i panciuti barattoli in vetro, sullo scaffale in alto a destra della dispensa.
il silenzio le palpitava tutt’intorno, eppure altre voci lontane la distoglievano altrove.
- e adesso come faccio? zia si arrabbierà moltissimo!
il terrore le solcava il viso e il cuore le stava fuggendo fuori dal petto, mentre la signora pia la prese a sé, stretta tra due braccia esili e lunghe, e le disse sorridendo:
- non preoccuparti, ci penso io. togliti la canottiera.
se la tolse svelta, la girò sulla schiena e la guardò con afflizione: un grosso squarcio si era aperto al centro, nel momento in cui lei stava precipitando dall’altalena di ferro.
- ti sei fatta male?
le avevano chiesto, ma lei no, non sentiva dolore alla schiena, ma al cuore, lì sì.
il taglio nella stoffa era colpa sua e lei doveva rimediare.
fu la signora pia ad aiutarla, facendo un ricamo certosino lungo la lavorazione a coste del cotone bianco, a tal punto che nulla lasciasse credere che ci fosse una cucitura.
da allora avevano un segreto, lei e la gentile signora pia, qualcosa che sapessero solo loro due.
- è pronto, gli gnocchi sono in tavola!
echeggiò sua madre, riportandola a quell'adesso: il pranzo di quella domenica a casa della zia.
ma prima andò in bagno a lavarsi le mani e, per farlo, dovette salire due rampe di scale a elle, che la condussero nel pianerottolo del primo piano.
una luce debole e giallastra s’infiltrava nella tromba delle scale: il tempo stava cambiando e ampie nubi grigie avanzavano da ovest, dalla costa, coprendo il paese con una sottile coltre di fine agosto.
spalancò la porta del bagno: rimase incredula, anche lì sembrò tutto immutato.
accarezzò le piastrelle bianche e blu dipinte con disegni antichi, controllò il ripiano incavato nel muro e ci trovò due riviste di cruciverba ingialliti del duemiladue, alcuni ancora vuoti, altri riempiti per metà, una biro nera, quella che usava suo zio, il lavandino bianchissimo con due manopole tonde ma esagonali, sempre troppo dure per lei da aprire e chiudere.
e quel profumo di pulito, un pulito eterno e sempre fresco.
- è certo che non apparteniamo ad alcun tempo, no. ma ai luoghi, quelli sì.
si disse posando la mano sulla maniglia antica e lavorata e, lavate le mani, se ne andò quasi dispiaciuta di riscendere.
raggiunse gli altri al piano di sotto: il suo posto a tavola era quello di sempre, alla sinistra di sua zia e a destra di suo cugino, la finestra sulla lunga collina alberata alle sue spalle ed il grosso camino in marmo sulla sua destra.
mangiò quasi fino allo sfinimento, come a riempirsi la memoria di sapori, odori, abbracci che non voleva andassero perduti: due piatti di ottimi gnocchi di patate irregolari, ognuno diverso dall’altro, morbidi ma consistenti, spuntature di maiale al sugo con due salsicce panciute e tozze e cicoria ripassata in padella, verde, più verde delle altre.
- lasciati un po’ di spazio, perché c’è una sorpresa.
le sussurrò sua zia all'orecchio destro, sporgendosi verso di lei e posandole la mano sulla spalla, e lei ebbe un sussulto: per nulla al mondo avrebbe voluto che quella sorpresa si sciupasse, confidando a sua zia di aver scovato una crostata nell’angolo nascosto della finestra della dispensa.
- davvero?
le disse, sgranando gli occhi su di lei per la gioia e restando in silenziosa attesa.
in quell’attesa c’era un universo in movimento: il lungo sguardo ed il sorriso tra lei e sua zia, sua mamma compiaciuta della sorpresa che stava per compiersi di lì a pochi minuti, un pranzo senza tempo come tanti altri, la sensazione di pienezza che, nelle viscere di non si sa dove, lei sentiva stringerla dal profondo.
una pienezza che non avesse più bisogno di vuoto per riempirsi ancora: si bastava così, era proprio piena.
la zia si alzò: ormai la accompagnavano lenti movimenti stanchi e non più spensierati, dispetto di un’età avanzata e di un tempo che segna i corpi con il suo scorrere di vita.
- ma non le anime…
pensò lei, che guardandola la vide esattamente come fosse allora: mora, svelta, nient’affatto appesantita, corpulenta e vigorosa, austera ma dolce, con una veste a fiori dal fondo rosso scuro e comode ciabatte basse in lana cotta verde scuro, impercettibili calze del colore della sua pelle, capelli corti e scuri con la riga ben fatta verso sinistra, foltissimi e tutti uniti.
sua zia scomparve, per ricomparire piena di soddisfazione ed illuminata in viso da un riverbero di mirtilli misti a more e fichi: abbracciava a sé, stretto e con affetto, un vassoio pieno di crostata di marmellata scura ed indefinibile.
il suo regalo, profumato e dolcissimo.
per lei, solo per lei.    

bi