martedì 31 luglio 2012

“le cose non avvengono mai due volte allo stesso modo”

il momento in cui finiscono le puntine nella spillatrice provoca sempre un tuffo al cuore e, cosa non meno importante, le puntine finiscono sempre nel momento in cui non dovrebbero terminare.
come il toner della stampante, il latte nel frigo, il ciclo, la carta igienica e luglio.
perché ho tante, tantissime cose in testa, ma proprio non so da dove cominciare.
ho tutto un caos di roba che si rincorre e che, per addomesticarlo, ieri mi sono allenata duramente: ho abbracciato scopa e paletta.
ma non una scopa qualunque, ma la scopa che ha un nome di donna e ci puoi montare a cavallo e vola che è una meraviglia.
e non una paletta qualunque, ma la paletta alta e snella che ha un manico color pastello e tacchi dodici, manco dovesse andare ad un matrimonio pomeridiano molto in.
- pulendo, mi si chiariranno le idee.
mi sono detta e, non soddisfatta, ho anche passato un magicissimo panno elettrostatico verde pisello e leggero come un piumino ed ecco che, esattamente come per magia, ciò che in apparenza non era visibile il panno se l’è bell’e portato appresso e appiccicato su se stesso, come una sanguisuga col sangue, appunto.
perché le cose finiscono e uno in realtà non è mai del tutto pronto.
e quindi, sempre in mancanza di idee ordinate, ho pure stretto in una morsa letale la pezza per spolverare a quadrucci in perfetto stile country e giù a sgomberare mobili, cassettiere, libreria, comò, comodini, tavoli, tavolinetti e pensili di misure varie da una sottilissima polvere grigietta, sedimentata e radicata come una quercia pluricentenaria.
perché in realtà, poi, anche gli inizi hanno le loro difficoltà, poiché uno non si sente mai perfettamente a proprio agio ed infatti, proprio per iniziare, è stata tutta una storia infinita e fantasiosa di scuse a mo’ di citazioni filosofiche, durata ben una settimana:
- certo, domani lo farò, ora no, non ho tempo, fa caldo, poi sudo a gocce, la polvere mi fa venire il prurito, sono stanca, scusa e i panni?, chi li stira i panni?, ormai è buio, dopo le sette la lavatrice consuma meno, faccio rumore e i vicini si scocciano, ho fame e prima mangio, oggi esco, devo fare la lista della spesa, in fondo domani fa lo stesso, che poi quale domani boh mica lo so poi vediamo, pulirò.
ho ripercorso un sacco di storie, pulendo, spostando cose, accarezzandone altre, lucidandone alcune e questo conta più delle puntine nella spillatrice, sicuro.
mi sono rivista bambina, con il viso a palla, un’espressione interrogativa e una parola che comincia con consonante labiale smorzata in bocca, un paio d’occhi nocciola profondi e belli da morire, capelli sottili biondo cenere, che solo da un po’ so che significhi biondo cenere, perché invece la cenere è grigia e non bionda o castana, ma va bene lo stesso.
mi sono rivista in un quadro pieno di alberi e colline verdi, un percorso sterrato e poco calpestato, un cielo promettente e pieno di speranza, solo un po’ più acerba e ancora poco consapevole.
mi sono rivista nel comodino pieno di libri lasciati lì a pensare, non impilati in ordine sulla libreria, che spazio ne ha eccome, ma così, riposti in un altro posto da quello usuale e comunque ben ordinati uno sopra all’altro, perché sono libri differenti: uno parla della vita di mozart, uno di storia contemporanea, uno di camilleri pieno di dialetto e di omicidi da scoprire, uno con una dedica a mio padre, che dice:
- la mente è un bellissimo posto in cui allenarsi ogni giorno senza affaticare le gambe. con tanto amore.
ed era un regalo per lui per la festa del papà.
mi sono rivista in una sorridente rana in porcellana verde acceso, pronta a saltare e fare il suo balzo verso il mondo e verso sé, coraggiosa e fiera e comunque semplice, sì, una ranocchia semplice, ecco come.
mi sono rivista in ginocchio sullo sgabello davanti al lavandino del bagno, con una scamiciata a fiori colorati e fondo blu, tutta intenta a lavarmi i denti e con i capelli folti e corti.
- i miei denti non sono sporchi: sono gialli per la penicellina e quindi è inutile lavarli.
perché era una rompimento di una noia bestiale mettermi lì in ginocchio, stendere il dentifricio rosa sullo spazzolino con il leone in cima, impastarmi di quella roba che allappa e ti lega le pareti e il soffitto della bocca da non vedere l’ora di sciacquare tutto via e stop.
mi sono rivista in una vecchia matita temperata con il taglierino, una accabi tinta di nero e molto tecnica, e ho pensato subito che, in effetti, da quando uso la tastiera non mi sporco più le mani né d'inchiostro, né di pennarelli, né di carboncino e questo è un vero peccato, anche se un piccolo sollievo.
domani sarà un altro giorno e soprattutto un nuovo mese: quello del leone, della luna del grano, del plenilunio nel giorno due, delle ferie, delle stelle cadenti, di san lorenzo in riva al mare o in alta montagna, del compleanno di manu mia e un sacco di altre cose.
quindi mi preparo a fare un salto, a farlo per bene, perché “le cose non avvengono mai due volte allo stesso modo”.

bi


["let the light in" di sarolta bán]

venerdì 27 luglio 2012

voglio una vita spettinata

di quelle a tinte decise e sgargianti, più lunghe ai lati, più corte dietro, double-face, fronte-retro e a risparmio energetico e fonti rinnovabili, che costi poco e abbia i ricci e i lisci al momento giusto.
di quelle che dormi quando hai sonno, mangi quando hai fame, il dovere si è sposato per sempre con il volere e il volare e vivranno felici e contenti e con figlie femmine multiculturali e cittadine del mondo.
di quelle che fai la valigia in tre momenti diversi, così non dimentichi le mutande e il caricabatteria, butti tutto sul letto, dividendo per argomenti gli oggetti che, in totale autonomia, si intrufolano in valigia beati e tranquilli e ti dicono:
- ehi! manchi solo tu!
di quelle che dici silvio e pensi solo a pellico e alla sua silvia, dea e donna amata e venerata e beatificata, che è esistita eccome, perché a lei solo rivolte parole intime, sussurrate ad occhi chiusi e rosa a cuore.
di quelle che dormi bene, sogni meglio e ti svegli e dici:
- voglio continuare.
e ti riaddormenti, sognando dal punto esatto in cui hai lasciato due minuti prima.
di quelle che alla parola amore non corrisponde un genere femminile, né un maschile, né una categoria di emarginati sociali, ma un’intensissima energia cosmica che è pure individuale, chiara per tutti, che unisce con fili dorati invisibili e non separa mai.
di quelle che sorridi e gioisci e se piangi è solo perché la felicità sgorga non solo dalle labbra ma pure dagli occhi e le punteggiature sono riservate ai libri di storia e i punti sulle i anche.
di quelle che non ti serve un impianto religioso in dolby surround e digitale, che funga da controllo sociale (e nulla più), monoteista e monolitico, che ha un presidente maschio represso sessualmente, che veste da donna e legge libri scritti da altri uomini definendoli sacri, poiché ciò che conta è soltanto la sfera spirituale e la sacralità della vita e di chi la vive nei gesti quotidiani, che sacri sono, eccome, e ognuno è dio di se stesso e dell’altro e dell’universo infinito, che si chiama multiverso.
di quelle che la società non include valori opposti a quelli della comunità, del vicinato e della famiglia, valori che insegni ad un figlio, del predichi bene e fai pure meglio, che valgono perché tutelano sul serio il bene comune, prezioso ed antico, che sa di buono e bello.
di quelle che i capelli ti crescono se li vuoi lunghi, restano corti se lunghi non li vuoi, si agitano come spighe di grano al vento a giugno e risplendono di tradizioni secolari e locali a gennaio.
di quelle che non devi travestirti da nessuno per essere qualcuno, ma solo da te stesso in persona, con i vestiti che ti pare, la faccia che ti pare ed uno sguardo limpido e sentimenti di bellezza.
di quelle che la stupidità si è estinta, il perbenismo pure, la mancanza di personalità anche, la cattiveria è impegnata nelle sue pene del contrappasso, dante alighieri è ancora vivo, caronte non è raffigurato con la faccia da mostro ma da adone, l’inferno è solo caldo e non è buio, nessuno russa e sputa per terra mentre cammina o accosta per strada per pisciare davanti a tutti.
di quelle che dici una parolaccia e scoppia una risata fragorosa e non ti devi andare a confessare di fronte ad un tizio che due ore prima si è scopato la perpetua (maggiorenne?) anche se tutti proprio tutti pensano che sia casto e invece fa solo parte di una casta (e le parolacce sono scritte in corsivetto sui vocabolari).
di quelle che la parola violenza significa cosa di colore violaceo tendente all’indaco.
di quelle che l’arte è arte a prescindere da chi la chiami così e specifica solo che quel ché è stato creato da qualcun altro.
di quelle che voglio cenare con artemide, la chiamo e viene e cena con me e mi racconta storie di vita magnifica, da farmi sentire le farfalle dalla testa ai piedi.
di quelle che fotografi senza iscriverti ufficialmente nella setta dei fotografi, scrivi senza iscriverti ufficialmente nella setta degli scrittori, ami senza iscriverti ufficialmente nella setta degli amanti, sei bravo senza iscriverti ufficialmente nella setta dei bravi.
di quelle che rileggi tutto questo sproloquio e non ti viene da piangere, né da vomitare, né ti ribollono le budella dall'impotenza, perché in realtà siamo ancora lontani anni luce dal vivere (e forse anche dal solo desiderare) una meravigliosa vita spettinata.

bi

ps: eppure, siamo esattamente ciò che pensiamo di essere e la nostra vita è proprio il prodotto delle nostre idee e delle parole che mastichiamo.




"sei andato a scuola
e ti hanno detto
'siedi al tuo posto',
e già lì hai smesso di credere
che il tuo posto sia dappertutto."
silvano agosti

[disegno dell'amato andrea pazienza, paz]

giovedì 26 luglio 2012

staring at the sun



amanti del freddo e dell’inverno, eroi romantici heathcliffiani delle brughiere, montanari dai mille metri in su, gente non di mare né mari & monti - tipo cozze e porcini insieme, imprecatori del sudore e del vento che non alita, nostalgici di febbraio che invece è luglio passato, gente che spera nella pioggia e danza affinché ella si manifesti e faccia festa, insomma oh voi tutti riuniti e sofferenti, rassegnatevi: sole è tornato più splendente che mai, ci fissa beffardo dall’alto dei cieli e ride ironico e più luminoso che mai dei puntini che vede, ovvero noi.
non che io sia nostalgica di febbraio, percarità: ho sofferto le pene dell’inferno senza fuoco, ma con le stalattiti che mi trafiggevano spietate cuore e membra.
però un po’ di vento fresco d’estate e serate più blu che rosse roventi e temporali estivi da sbrigati leva le tende che se no decolla tutto il palazzo… be’, ero una che ci sperava come voi.
e aveva pregato affinché le alluvioni del nord e le piogge ridicole del centro-sud avessero potuto trovare un giusto compromesso, mettendosi d’accordo come due amanti al primo anno di conoscenza, che si mettono a tavolino ben bene apparecchiati per soddisfare i rispettivi desideri, senza urla e combattimenti di galli furibondi da arieti incazzosi e capricorni testardi.
arrendiamoci.
accettiamo tutti il fatto che d’inverno dimentichiamo la siccità, la pressione bassa (quella a meno di sessanta, dico), i trentacinque gradi, le magliette sudate nella schiena, le ascelle piangenti come salici che scendono, i peli che crescono più velocemente, le notti insonni che cercano posizioni che non troveranno mai, ombrelloni ululanti di bambini che gridano e ti tirano sabbie mobili che non stanno immobili, lettini in spiaggia che sono finiti ché è già l’una e all’una il sole fa male, arie condizionate che si rompono incondizionatamente, pelli scottate perché la protezione solare delle creme scade ogni anno come la mozzarella di bufala in frigo dopo tre giorni, infradito che sfiorano spigoli che i mignoli prendono e strilli parolacce a tutt’andata, lavori che non ti va di lavorare perché a giugno luglio e agosto è pura cattiveria della vita anzi della società che siamo proprio noi, bibite ghiacciate che bevi godendo e ti prende un attacco secco di dissenteria fulminante, Zanzare come Tigri di Mompracen pure con la maiuscola, traghetti che costano come voli verso marte, marte che transita e innervosisce i terrestri ma non i marziani…
insomma: arrendiamoci.
accettiamo tutti il fatto che d’estate dimentichiamo il buio della tristezza che ci attanaglia da novembre in poi (ci sarà un perché novembre è il mese dei morti e non dei vivi, o no? oltre al mercato dei fiori e dei crisantemi che ha il suo picco proprio a novembre), le piogge che durano giorni e giorni sì che la terra pure si sveglia la mattina e si dispera perché annega e si fracicano frutti e fiori e cortecce di tutto il mondo che è paese, il vento che spazza via le speranze e le porta verso l’equatore e chi s'è visto s'è visto, i gradi sotto zero che già zero basterebbe che non è né carne né pesce né vegetale, la neve che blocca le porte e rinchiude le vecchiette in paese che manco il pane né il latte riescono ad andare a comprare, sorrisi che sono emigrati con gli stormi e che torneranno soltanto con le rondini che fanno primavera perché sono le uniche che conoscono la strada del ritorno e nessun altro, stivali che ti soffocano gli arti - braccia comprese, cappotti che ti appesantiscono le ali e non voli più e fanno molto serial killer, strade deserte ai confini della realtà…
insomma: arrendiamoci!
sole ci saluta tutti magno cum gaudio, c’illumina d’immenso, ci scalda le ossa che imprecheranno meno d’inverno, ci dona energia e voglia di vita, fa germogliare e secca il seccabile, che lui solo sa che non fa male a nessuno.
non crucciamoci, facciamoci anche due docce al giorno (con prodotti dolci e naturali), usciamo fino a tardi così non pensiamo al caldo, dormiamo sulla sdraio del nonno in balcone, seduciamo l’umidità e facciamocela migliore amica o quasi, mettiamo il nostro vestito più bell'e fresco, inebriamoci di un buon profumo floreale molto ice e grigetto che fa più fragranza fresca, inforchiamo occhiali scuri e belli e grossi e via: fissiamo il sole!
ah, e non dimentichiamo di sceglierci una bella traccia sonora, che tracci le note nel nostro io più profondo, che sente meno caldo e quindi e più lucido dell’ego superficiale e capriccioso.
and let’s staring at the sun.

bi

ps: sono nata a giugno e nessuno lo può annegar, nemmeno io a me medesima e stessa.
che poi, se manco le piante si lamentano, noi che ci lamentiamo a fa’?      

[la foto mostra l'oro dell'estate: il grano]



mercoledì 25 luglio 2012

come quando fuori piove


alcuni momenti della vita di barbara b., parte seconda

ore 23.25
un’altra malinconica domenica di ritorno.
rincasa dopo due giorni trascorsi quasi sempre all’aperto e l’odore che la accoglie e turba è quello dell’oscurità custodita nei suoi due giorni e mezzo di assenza, in cui casa sua si è ritratta un po’ in se stessa, in riflessione e lontano dal frastuono.
tutto ha lo stesso odore di quando ritorna, tutto.
apre le finestre, le spalanca come ad interrompere un lungo e solitario silenzio ed ecco che il buio fresco e ventoso degli attimi che precedono la mezzanotte s’intromette e s’impossessa di ogni angolo della casa.
- detesto i ritorni.
pensa tra sé, chinando il capo.
e nel frattempo si preoccupa di ridare vita alle piante assetate e nuova collocazione ai vestiti chiusi alla meglio nel borsone del fine settimana.
lo tiene lì, sempre pronto, vuoto e semiaperto dal lunedì al venerdì, mentre in testa sua sa sempre con chiarezza cosa dovrà metterci dentro la volta successiva.
il libro con la matita schiacciata dentro non manca mai e puntualmente lo ripone nel comodino dell’altra casa, per poi lasciarcelo dormiente fino alla domenica.
lo riporta intonso, mai aperto, rilassato, ché lo porta lì per far respirare altra aria e fresco e luce pure a lui, per poi riportarlo via con sé.
- esiste un tempo specifico per leggere.
dice lei.
il cielo è completamente coperto, dicevano da giorni che sarebbe arrivata la pioggia.
- sì, ma quando? io sto qui che l’aspetto. c’è tanto bisogno di acqua, tutta la terra ha necessità di bere.
si prepara ad accoglierla, mentre chiude tutto e si rinchiude in un sonno profondo eppure breve, per i tempi suoi, e in sogni di cose mai viste e da esplorare che le pervadono la testa, per poi abbandonarla per sempre e scendere nell’oblio la mattina successiva.
- non ho sognato neanche questa volta.
dice, specchiandosi, ma si sbaglia.

ore 11.10
piove, finalmente.
di quell’acqua che tutto lava, tutto pulisce, tutto impregna, tutto trasforma.
la distrae dalle cose sue e le disegna un sorriso appena accennato sulle labbra, inaridite dall’aria secca della montagna.
- mi si seccano naso e bocca, qui.
aveva detto a suo padre.
e lui prontamente le aveva detto che sì, in effetti non c’è umidità e l’aria è quella degli oltre mille metri dal livello del mare.
è per questo che a pranzo e a cena, quando si lava le mani, si inumidisce le narici piene di odori e di altrove.
e sorride, perché già sa che accadrà ancora e ancora.
vorrebbe stare lì e restarci a lungo, senza quei ritorni che le riaccendono nel cuore i drammi dell’infanzia e dell’adolescenza, quando a fine agosto ritornava.
- detesto i ritorni!
sussurrava, piangendo.
e la sua casa odorava di vacanze finite.

ore 19.20
la pioggia cade copiosa e sembra non avere fine, la città si paralizza e lei pure.
da niente a tanto il risultato è sofferenza, perché nessuno ha il tempo di abituarsi: non ti puoi dissetare se qualcuno cerca di farti annegare.
- non è tempo di usare la testa.
si dice, piangendo.
perché l’acqua che confluisce dovrà pure uscire da qualche parte e gli occhi sono proprio quelli che riflettono l’anima.
riflette, si rianima e finisce per sorridere nuovamente.
è tornata a casa, ma questa volta fremeva di rientrarvi.
- adoro questi, di ritorni.
e va a lavarsi il viso con l’acqua fresca, per poi inebriarlo dell’acqua di rose, di quell’odore che riesce a cancellare i ritorni blu e le parla di fiori, foglie, radici.
odora come quando fuori piove.

bi

ps: ciò che la mia mente scinde in due parti il mio cuore unisce.




["stormi quotidiani" di thomas jackson, da www.hubblog.it]

lunedì 23 luglio 2012

l'odore del cipresso


- guarda quanta bellezza e quanta storia in quella casa: ogni volta che la vedo, resto incantata.
- qui ci lavorava nonna quand’era giovane, aiutava la famiglia c.
- sarà che la guardo con gli occhi suoi, allora. mi sembra quasi un luogo irraggiungibile.
- loro erano molto ricchi, volevano solo lei per gestire l’organizzazione della casa, con la sua determinazione e il suo vigore.

si estende maestosa ma discreta, quasi nascosta agli occhi di chi passa, perché te ne devi proprio accorgere che c’è ed è così bella.
sembra che dentro sia piena di stanze e pare quasi di sentire ancora le voci di chi l’ha abitata per lunghi anni e vi si muoveva con maestosità eppure con gentilezza.
le finestre sono verdi e grandi e squadrate e disposte ad intervalli regolari, incorniciate da un marmo delicato e nient’affatto pacchiano, e s’aprono da un lato verso la strada e dall'altro dentro l’ampio giardino.
un terrazzo triangolare e spazioso s’affaccia verso la montagna: ha l’angolo che ne indica esattamente l’est e pare dire:
- la salita comincia esattamente lì.

si scorgono alberi da frutto, antiche siepi abbandonate ma sopravvissute, un altissimo ed imponente portone marrone scuro che disegna un arco, un cancello stanco, sì, ma ancora orgoglioso e semiaperto, come a ribadire:
- entra, non esitare.

io sto lì a guardarmelo con un forte desiderio di varcarlo e fare un giro lì dentro attorno a me stessa, con la fronte verso l’alto, gli occhi al cielo e le labbra appena dischiuse.
ci passiamo accanto, dalla strada, e la casa sembra non avere mai fine: lunga, larga, lunga.

- oddio, detesto quest’odore!
- quale odore?
- l’odore pungente dei cipressi.
- e qual è l’odore dei cipressi?
- è quello che sentii una mattina, mentre giocavo in giro per il paese. all’improvviso arrivò una tizia e mi gridò: “tuo padre è morto! torna a casa, tuo padre è morto!”

restiamo in silenzio.
i nostri passi un po' esitanti rallentano.
penso ed ecco che sento per la prima volta il cipresso fin dentro le narici e un brivido acre di malinconia mi stringe il cuore e mi galoppa per la schiena.
lei china il capo, ma poi si gira sorridendo:

- ahi, quanto l’ignoranza della gente supera l’immaginazione... non lo dimenticherò mai quel momento, avevo solo nove anni. quel maledetto odore di cipresso mi ha sempre fatto schifo e ora che lo risento mi fa vomitare.

un pezzo di vita sua mi scorre fulmineo davanti agl’occhi.
il sole è alto, sudiamo, la mano mia prende e stringe teneramente la sua, che resta un po’ chiusa e debole.
la trattengo stretta ancora e le sorrido.
lei mi guarda e mi sorride luminosa.
ci fermiamo proprio davanti a quel cancello.
m'affaccio dentro e resto immobile per la meraviglia, mentre lei esita dolcemente e si ferma un passo dietro di me.
ancora una volta le abbraccio la mano destra, un po’ più decisa, e sorrido, più forte.
lei pure.
 
- sentiamolo insieme, io non l’ho mai sentito prima d’ora.
- meglio così…
- da oggi quello del cipresso sarà l’odore di una scoperta, mamma.
- va bene.

bi



["così come i fiori attendono le loro more", foto scattata in abruzzo] 

venerdì 20 luglio 2012

mai più con

mai più con i miei amici nella casa dell’orrore.
quella con le persone vere, dico, non quella con gli effetti speciali per i bambini.
avevo circa diciassette anni quando ci entrai, per la prima nonché ultimissima volta e stop.
quel giorno fu memorabile, perché si susseguirono una serie infernale di attacchi di panico, con il cuore a tremila ad intasarmi il respiro ed affaticata emotivamente da altri intermittenti attacchi di riso masochistico.
ad un certo punto, mi si avvicinò freddy krueger in persona.
ero l’ultima a chiudere la fila.
(santo cielo, bi! mai, dico mai, essere l’ultima della fila! lo insegnano in tutti i film di paura! che cavolo! possibile che tu pensassi anche lì di trovarti in un pazzesco mondo pieno di effetti speciali e magie? non imparerai mai così, bi, mai!).
mi guardò assetato di sangue, con quei coltelli interminabili ed affilati al posto delle dita, gli occhi infuocati e la bocca pronta a spalancarsi in una smorfia, che sapeva di morte annunciata e pure quasi già putrefatta.
si bloccò.
mi fissò con un ghigno ancor più feroce.
capii: indossavamo la stessa maglietta.
ma dico io, come mai incredibilmente quel maledetto giorno io decisi di indossare una vecchia polo a righe blu e rossa?
(infatti, bi! come mai avevi deciso di buttarti nella fossa dei leoni con l’odore di antilope giovane e sgargiante addosso? è un déjà vu importantissimo: ti dice molto del tuo inconscio, bi! non imparerai mai, così, bi!)
il suo viso furente parve visibilmente schifato e travolto dall’ira, forse perché si sentì defraudato di una specialità, che fino ad allora era stata soltanto la sua: la maglia rigata...
ricordo benissimo che cercai addirittura di sedurlo con un sorriso da ingenua liceale, quello che avrebbe fatto anche alice nel paese delle meraviglie davanti ad un non-sense, dicendo a me stessa:
- è un fake è un attore sta fingendo sorridi digli che è fighissimo vestito così e che sembra proprio krueger più di quanto krueger fosse se stesso mo se ne va mo si allontana mo ce ne andiamo noi oddio no eccolo arriva oddio mo… scappo!
e scappai, perché si mise a corrermi dietro.
mai più con i miei amici nella casa dell’orrore.

mai più con un’amica al concerto di baglioni.
si l’ho fatto sul serio: andai al concerto di baglioni.
tutta carina e piuttosto serena, ignara dell’effetto devastante che di lì a poco il mio corpo e il mio es nascosto avrebbero subito...
eravamo poco più che venticinquenni entrambe ed io mi ero lasciata da poco con un ex fidanzato.
di quelli che chiamavi proprio fidanzato, non uno con cui stessi uscendo in quel periodo così tanto per.
no, no, uno di quelli con cui mi scrivevo delle laceranti lettere d’amore, ascoltavo delle canzoni assolutamente improbabili e mi ci giuravo l’amore… eterno!   
(santo cielo, bi! eterno? ma non avevi capito, ancora? eterno è un termine assolutamente relativo: esiste giusto per il periodo in cui vive dentro al surgelatore. eppoi, non appena lo tiri fuori, si scongela e diventa mortale. capito mo?)
insomma, ci sedemmo ed io ero anche visibilmente emozionata, consapevole che per me fosse il primo baglioni in assoluto nella vita, che neanche sapevo le canzoni a memoria, perché non ne avevo memoria affatto: e chi l’aveva mai ascoltato baglioni in vita mia?
insomma, per farla breve, si successero due lunghissime ore, nelle quali le mie lacrime sembravano non trovare mai più termine...
sembravo rossella o’hara in preda ad una crisi di nervi: piangevo e cantavo e piangevo e ricantavo e piangevo e m’asciugavo e piangevo e lacrimavo e mi disperavo.
che, dico io, ma chi me lo fece fare?
ne uscii distrutta, ma con una consapevolezza: baglioni lo devi ascoltare, se proprio non ne puoi fare a meno, con il tuo fidanzato, ecco.
e non con un’amica e pure dopo due settimane dalla fine della storia con fidanzato.
se no è uno stillicidio di lacrime!
mai più con un’amica al concerto di baglioni.

mai più con mio papà da ikea, mai più con la mano nella spina del phon appena staccata, mai più con i peli delle gambe lunghi dall’estetista che ti tira via anche le ossa, mai più con i dubbi sulla persona che sono e le certezze sulla strada da percorrere, mai più con il mascara nero water resistant in piscina, mai più con la mente ed i pensieri verso chi non li merita, mai più con mia mamma su un tapis roulant, mai più con il cassetto con dentro i miei sogni chiuso.

bi     



[immagine tratta da internet]

giovedì 19 luglio 2012

la ballata dell'uomo ideale

l’uomo ideale si sveglia al tuo fianco, prima di te, e sorride perché sei lì con lui.
si gira con lentezza ed eleganza per osservarti mentre dormi, senza quasi neanche respirare per timore di svegliarti.
e al tuo risveglio posa le sue labbra sulle tue e, fissandoti oltre l’iride ancora poco consapevole, ti sussurra:
- sembravi la principessa aurora, mentre sognavi, amoremio...
(proprio tutt’attaccato).
ma non ti chiede se stessi sognando lui e se avessi desiderato il suo corpo in sogno, ecco, questo no.

l’uomo ideale non russa.
respira come per sussurrare alla notte i suoi segreti, quelli che tu vorresti ascoltare, mentre sgrani gli occhi senza essere vista.
dorme in una posizione poco regolare, non la classica fetale, né quella supina, né soffocandosi sul cuscino e schiacciando tutto il suo sé sul materasso.
piuttosto assume una forma artistica bianca e nera, di cui man ray ne immortalerebbe la simmetria sgrammaticata, facendone un capolavoro.
si cala coraggioso in un sonno intimo, profondo e catartico, e va ad esplorare il suo io più nero e nascosto, sognando di essere un eroe preistorico alla caccia di un drago da sconfiggere.
ma senza ammazzarlo, ecco, questo no, né mangiarselo, ecco, manco questo.

l’uomo ideale è un vero dandy.
ordina la sua chioma come fosse un’improvvisata opera d’arte, facendola apparire un caso fortuito e una coincidenza straordinaria.
ti afferra delicatamente la mano destra, senza mai guardarla e senza mai staccare i suoi occhi scuri dai tuoi, lasciandoti sotto l’effetto di una sublime ipnosi.
ti gira attorno danzando con bellezza e gentilezza, stringe nella mano sinistra l’orologio da taschino con il terrore che il tempo scorra via più veloce del normale, perché lui è lì: in te.
e arde di emozione nell'anima e continui brividi lungo il corpo.
se non ha un cravattino, indossa una sciarpa morbida e tenue, i pantaloni sono stretti e scuri, la giacca avvitata ed i movimenti veloci ed eroici.
ma non pensa di essere più bello di te, ecco, questo no, né pensa che tu sia il suo trofeo da esibire in società, ecco, manco per niente.

l’uomo ideale non è pesci, né sagittario, né toro.
è di un segno tutto suo, che li racchiude tutti insieme dentro il prisma di se stesso e ne rimanda a te un arcobaleno di bagliori e calore umano.
ma non gli pesa se sei dei gemelli ascendente leone con luna in ariete, ecco, questo no, né te lo fa pesare ululando.

l’uomo ideale conosce e apprezza la sua parte femminile e sa che non è donna.
sa cosa vuol dire, quando si manifesta, perché e dove, non la teme ma la accoglie e desidera scoprirla e lucidarla insieme a te.
mentre tu sperimenti il tuo lato maschile attraverso di lui, lui stesso se ne compiace e tu te ne compiaci altrettanto e senza vanagloria.
sa cosa dirti, come dirtelo, a quale volume, in quale orecchio.
sa manipolarti, condurti a sé senza farti abbandonare te stessa, sentirti senza ascoltarti, vederti senza guardarti.
ma non è un alieno con orecchi a punta e verde acido, ecco, questo no.

l’uomo ideale esce un attimo e va a raccogliere sfumature.
non ovvietà, definizioni, bianchi e neri, puntini sulle i.
lui in quella ricerca brama di trovarle, con una forte ansia al petto e poco ossigeno nei polmoni, perché vuole riconoscerle per portartele in dono, dentro un cesto d’altri tempi, piene di sole e di tenero e fascinosissimo amore.
ma non lo fa per perbenismo e ricorrenze varie e con vanità, per poi dimenticarti dopo un mesetto appena, ecco, questo no.

l’uomo ideale ti mostra la sua ombra.
non teme che sia lunga, più lunga della sua figura slanciata e tonica, e la chiama proprio ombra, non in un altro modo.
ti confessa che essa si accompagna con un bastone, indossa un cappello scuro e non mostra il suo sguardo se non a pochi eletti, di cui tu sei la regina incontrastata e con la corona.
ma non è un narcisista, ecco, questo no.
e sa perfettamente che essere narcisista non significhi certo specchiarsi e vedersi bello, ecco, questo proprio no.

l’uomo ideale ti pensa e lo dice.
ti ama e lo dice.
ti vuole e lo dice.
e se non ti ama, lo dice.
se non ti vuole, lo dice.
non ti truffa, si concede, non chiede, si fa dire, ti circonda senza stringere a morte, parla per sinonimi e contrari.
ma il suo alito non puzza, ecco, questo no, e la sua pelle odora di paradiso, altroché fetore.

l’uomo ideale esiste ed è un’idea meravigliosa nella testa come una statua in marmo, pura, bianca, forte e bella.
e come tutte le statue ha bisogno di restauri continui.
e, se cade, si rompe.
e non è più la stessa, per sempre.

bi


[il bacio, di francesco hayez]

mercoledì 18 luglio 2012

chi ha tempo non aspetti il vento

c’è aria di cambiamento.
va respirata e senza sospiri, perché significherebbe respirare poco e male.
questa notte la luna sarà assente, per i più, ma non per chi vorrà vederla scura, perché non vuole solo goderne la luce.
sarà nera, per poi rinascere nuova e fiammante domani, diciannove luglio.
ho comprato un tappetino molto fucsia e molto tappetino, bell’e pronto per iniziare quello che si chiama movimento.
il rischio sarà quello di sedermici sopra e aspettare che voli.
e lui comunque volerà, per accontentarmi.
altrimenti posso pure appenderlo nella mia camera sulla parete ai piedi del letto, a mo’ di arazzo.
così nudo e senza figure, stimolerebbe la mia immaginazione e ne vedrei paesaggi, passaggi, panneggi, appannaggi.
oppure potrei mettermici comodamente seduta a gambe incrociate a leggere i miei nuovi sette libri, che non vedono l’ora di essere aperti e sfogliati ed interrotti e sottolineati (con la matita hb, percarità!) e odorati a occhi chiusi.
è chiaro dunque che sul mio nuovo tappetino ci farò molti esercizi.
c’è aria di cambiamento.
temo solo di svegliarmi una mattina, specchiarmi ancora assonnata per cercare di scrutare oltre me e restare invece ipnotizzata di fronte alla nascita del primo capello bianco!
(che può pure essere).
e pure lì avrei una rosa di scelte possibili:
a) afferro in preda ad un attacco di ira funesta le pinzette migliori che ho, lo aspetto dietro un angolo e appena spunta lo attacco frontalmente, spiazzandolo perché non pensa che io sia così coraggiosa, e lo stringo a morte tra le pinze, togliendogli il respiro e facendolo diventare viola e… lo stacco. senza pietas.
bi) rido a squarciagola in modo piuttosto isterico, sempre per spiazzarlo perché non pensa che io possa mantenere ilarità ed ironia, lo guardo sadica e gli dico perentoria:
- scegli tra il blu e il verde fluo: da oggi sarà la tua nuova veste, molto eighties.
ci) lo fulmino con uno sguardo terrificante a tal punto che mi si infuocano pupille e iride tutti insieme, mi sputo sul dito indice, ci afferro degli steakers a teschio e lo soffoco con quelli, che lui non è più bianco ma nero a teschio e senza più vita ed espressione. morto. teschio.
c’è aria di cambiamento.
e forse la mia sempreverde adolescenza inoltrata capisce che basta, i brufoli fanno parte di un’altra era, come l'elegante e seducente belle époque.
non è più belle e io ho una certa époche, tanto che i brufoli non hanno più il senso di una volta e devono andare a morire ammazzati ora e per sempre e senza possibilità alcuna di reincarnazione.
il sole e l’estate li annichileranno e li arderanno sì da farli pentire di essere venuti al mondo e... puff !: spariranno e torneranno, soli e mesti, nell’iperuranico mondo delle idee, mentre io, radiosa e soddisfatta, ne conserverò soltanto un lontano e sbiadito ricordo.
c’è aria di cambiamento.
me lo dice anche il mio amato igor sibaldi che devo ribellarmi e varcare il confine...
poche cose in valigia, per lo più nuove, piegate, la mia crema antirughe con fattore q10 fatta dalla mia Di proprio con le sue manine d’oro, occhiali grandi per coprire il copribile, la mia inseparabile pashmina rosa con i fiorellini bianchi e le perline, piedi scalzi e i depeche mode che mi urlano negli orecchi canzoni dell'adolescenza estiva in abruzzo.
il confine sta lì e me lo sto guardando da un po’, ora subendone il fascino, ora provando quell’emozione di gioia mista a terrore, che sussulta nel petto e ti grida: sei viva! 
il varco è pronto, devo solo finire di sbrigare qualche noiosissima e terrenissima pratica burocratica, comprare un pantalone di cotone stretto a fiori di quelli che l'orlo non serve, andarmene al mare, pagare l’assicurazione della macchina, salire in vetta sul velino e tornare al lago della duchessa e poi arrivare lì davanti ed eccolo lì: settembre. 
c’è aria di cambiamento.
e tutte le sere sta spirando un vento di ponente che alza polvere e parole: è l'alito potente del sole che passa davanti casa mia e fa agitare le tende del balcone fin quasi a staccarle.
e loro lì sembrano pronte e si gonfiano panciute e forti perché vogliono partire pure loro e andare verso nord.
e chi ha tempo non aspetti il vento.

bi




"settembre, andiamo. è tempo di migrare.
ora in terra d'abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all'adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.

han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d'acqua natia
rimanga ne' cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
rinnovato hanno verga d'avellano.

e vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
o voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!

ora lungh'esso il litoral cammina
la greggia. senza mutamento è l'aria.
il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
isciacquio, calpestio, dolci romori.

ah, perché non son io co’ miei pastori?"


i pastori, gabriele d'annunzio

martedì 17 luglio 2012

a me ad esempio sarebbe piaciuto fare l’insegnante

e mi sarebbe piaciuto fermarmi sul ciglio della porta, ogni volta, pochi minuti prima del suono della campanella, per osservare la mia classe.
provando un'impercettibile e bonaria sensazione di possesso, che mi avrebbe fatto dire:
- ho una bellissima classe.
di menti che avrei sentito un po' mie, alle quali avrei aperto direzioni che non sarebbero mai state le stesse, pur avendo usato con tutti le stesse parole.
mi sarei messa lì ad osservarli partendo dal fondo, occupato spesso da chi vuole sparire e mimetizzarsi con il muro, facendosi seducente e fintamente silenzioso come un murales.
si sarrebbe vestito scuro, con i jeans laceri e larghi, un pugno chiuso poggiato sulla tempia ad oscurare uno sguardo attento ma latitante, una t-shirt chiassosa e alternativa, a dire lei per lui:
- io mi distinguo e tu lo sai, perché scelgo di dirtelo a modo tuo.
in terza fila una tipa allegra e acuta, che eccelle con pochi sforzi e campa di rendita, che si gira a parlare con il murales in ultima fila e collabora con i secchioni della prima.
frizzante, dal tono della voce tranquillo ma vigile, sobria, che partecipa e si porta appresso una moltitudine semplicemente con il suo fare leggero ed intelligente.
davanti a tutti due inseparabili amiche occhialute e sapienti, pronte a rizzare al cielo mano e dito indice alla prima domanda rivolta guardando sul fondo.
- noi non vi vediamo, voi ci vedete?
avrebbero detto questo, se avessero saputo veramente come mai avessero scelto la sedia in prima fila.
la scusa sarebbe stata della lavagna, per vederla meglio, strizzando il meno possibile gli occhi, dopo aver asciugato quel po' di umidità sotto i naselli degli occhiali tondi e chiari.
avrei osservato tutti sorridendo e compiacendomi di essere arrivata dall'altra parte, dove è scomparso il timore della biro che scorre lenta i nomi disposti in ordine alfabetico sul registro, poco prima di un'interrogazione.
-oggi spiego. invece la prossima volta spiegherà al mio posto la persona che avrei voluto interrogare oggi. e lo ascolteremo tutti, prendendo appunti. me compresa.
a ricreazione mi sarebbe piaciuto restare seduta alla cattedra, a leggere rilke e jodorowsky.
la curiosità avrebbe senz'altro spinto qualcuno a dirmi:
- cosa legge?
- le poesie di un esteta. sono ciò che dovremmo realmente chiamare bellezza. e le magie di un equilibrista, di un genio. sono tuoi, se vuoi.
- si, grazie…
mi avrebbe risposto.
e glieli avrei donati.
avrei raccontato loro che, alla loro età, all'ingresso di un insegnante si usava alzarsi tutti in piedi.
era una forma gentile di gratitudine verso un essere umano che è fonte di sapere e conoscenza e che ha un'enorme responsabilità, socialmente poco riconosciuta.
e loro si sarebbero alzati a loro volta, senza che io avessi detto null'altro.
mi sarei vestita in pantaloni comodi e scarpe basse, avrei inforcato i miei occhiali alzando lo sguardo fiero e quieto, mi sarei mangiata una pizzetta al prosciutto e formaggio comprata al bar al primo piano, avrei cercato un dialogo personale con ciascuno di loro, avrei scritto e fatto leggere, avrei fatto scrivere molto e letto la sera stessa in un angolo di casa scuro e assonnato, avrei narrato di lotte e ribellioni, avrei portato immagini e filmati e fatto visitare altri luoghi, avrei raccontato oltre che detto, avrei fatto raccontare oltre che ripetere, avrei aiutato per ricambiare l'aiuto, avrei ascoltato con un amplificatore immaginario, avrei cercato certi sguardi al posto di altri, avrei registrato e fatto riascoltare, avrei smosso e istigato, avrei polemizzato e fatto autocritica, avrei voluto far sognare.
avremmo partecipato, lì dentro, ché la partecipazione è un sentimento.
e ce lo saremmo detto, a fine anno, davanti ad una birra fresca e ventosa in riva al mare.

bi


[salvador dalí, donna alla finestra]

lunedì 16 luglio 2012

l’amore non è un bed & breakfast

di quelli che pensi che ci dormi e pure bene, visto che sono proprio specializzati a farti chiudere gli occhi e viaggiare con mente e anima, perché nella vita fanno solo quello e quindi va da sé che lo facciano bene.
e il letto è accogliente e comodo e vestito ikea, così ti ci riconosci e non ti sembra un nemico oscuro.
la colazione è supermegagalattica, come ti pare e piace, dolce e pure salata.
e il dolce è di quelli fatti in casa che sanno di marmellate cotte la settimana prima e con i pezzi e i semi, di  ciambelloni con l’olio e non con il burro, di cornetti non surgelati, di latte assolutamente non a lunga conservazione, di caffè fatto con la caffettiera lavata solo con l’acqua e senza saponi.
e il salato è rigorosamente bio, con le uova delle galline che ti affacci e le vedi che mangiano mangime sano e si vogliono bene tra loro e non si litigano il gallo di turno, con frittate che si chiamano solo frittate e non omelette così sono pure più genuine, dove la pancetta è bandita e invece è pieno di cetrioli, zucchine, fiori di zucca, melograni, meloni, melanzane, cachi alla vaniglia, zafferano, basilico alto come un ficus, olive di cui conosci padre e madre perché sono gli alberi dov’è attaccata l’amaca.
insomma, robe che dici che dopo il bed con un breakfast così magari il pranzo manco serve e, se t’accontenti e sei pure di bocca buona, la cena la fai con il panino con le melanzane che ti sei incartato a colazione e hai conservato in segreto.
ecco: complimenti per la figura e l’educazione.

di quelli che ti dici che sono a conduzione familiare e quindi ti senti più a tuo agio e rilassato, tipo casa nella prateria: quella sensazione di conosciuto, di certezza, di casa paterna e materna, quella che tanto prima o poi lasci e te ne puoi andare dove e come ti pare e senza troppe giustificazioni, perché quella è per definizione la casa che si lascia. o no?
che ti convinci che sia meglio lasciarsi la possibilità di pranzare in un posto, cenare in un altro, pranzare in un posto, cenare in un altro, pranzare in un posto, cenare in un altro, pranzare in un posto, cenare in un altro, pranzare in un posto, cenare in un altro…
tipo di palo in frasca, dalla padella alla brace, zuppa e pan bagnato, piede in due staffe e via.
senza offesa, s’intende.
anzi, senz'amore.

di quelli che dici sì, dai! così risparmiamo senza lunch e dinner!
e invece no.
non è una questione a buon mercato, l’amore.
ti ci devi buttare alla cieca e gridare ti amo! fin dalle budella, che intanto ti si aggrovigliano come se ti stessi buttando giù in picchiata da un altissimo bungee jumping e senza sapere se la corda regga o si spezzi!
devi buttarti, forte!
e gridare, forte!
da frantumare i timpani a qualcuno per la strizza che provi e che prova chi ama facendo sul serio!
altro che letto & colazione: l’amore deve fare almeno cinque pasti al giorno e pure di quelli verdi, a forma di cuore, dai suoni soavi, dall’andamento coraggioso, da parole diverse da “paura” e “poi vediamo” e “sarà quel che sarà”.
non devi alimentarlo come faresti con te, a caso, a tempo perso, se ti ricordi, se non hai di meglio da fare, se non piove e tira vento.
ma come nutriresti un figlio tuo, che ha bisogno di te se no muore.
che ha bisogno anche di te, se no muore.
l’amore non è un bed & breakfast, non è un albergo a ore, non è un agriturismo in mezzo alle colline, non è un’idea, non è una commedia a lieto fine, non è un passatempo, non è estate a tutti i costi, non è una vacanza, non è un con, non è un ma, non è un se ma semmai un , non è una scommessa, non è una sfida, non è una lite, non è una certezza, non è una risposta, non è una domanda, non è part-time, non è senza dubbio - anzi, non è vincere ma semmai partecipare, non è forza, non è debolezza, non è uno più uno che fa due, non è ieri né domani, non è iotu, non è un sicuramente.
l’amore è un forse.
l'amore è un gerundio.
l'amore è un attraverso.
che sa di bellezza, profuma di intimità, ascolta prima di parlare, sogna e sa ridere di sé.

bi



[immagine tratta da internet]

venerdì 13 luglio 2012

l'estate non è una stagione, ma uno stato d'animo.

- l'estate non è una stagione, ma uno stato d'animo.
- e chi lo dice?
- l’ho letto, mi è piaciuto.
- e cosa ci trovi di bello? il fatto che ci sia la parola estate? è una frase di un film idiota, di un regista idiota ed interpretato da idioti.
- è un concetto che vedo scorrere, che si muove...
- a me fa venire una dannata malinconia.
- eppure c’è speranza.
- a pensare che duri tre mesi? tu desideri che uno stato d’animo ti duri tre mesi? soltanto tre avarissimi mesi? oppure addirittura tre interminabili mesi?
- penso che ci sia speranza nel fatto che, se dico estate, l’umore si vesta estivo e giallo, mi scaldi le ossa, come quando finiva la scuola e me ne andavo da mia nonna.
- una volta, ma ora non è più così.
- infatti, lei non c’è più.
- e comunque non puoi e basta.
- il mio animo ha sacrosanti diritti e ci va. il mio corpo ha integerrimi doveri e resta.
- ti accontenti di poco, tu.
- poco per chi? per me è moltissimo.
- non sei più una bambina, questa è la verità.
- verità… e che te ne fai di questa verità? io preferisco nutrire la mia parte bambina e farla partire tutti gli anni il primo fine settimana dopo che giugno abbia passato la metà. e lei ci va, prende e parte. tu non la fai partire?
- chi?
- la parte bambina che sopravvive ancora in te.
- non ho tempo per queste stupidaggini: la realtà è che sto aspettando agosto per non lavorare e basta. il resto sono storie.
- bellissime le storie…
- sì, intanto ci tocca lavorare e con il caldo che ci distrugge.
- le storie ci concedono un’alternativa e ci donano una speranza. la speranza che al lavoro non ci pensi e che il caldo ti dia energia, anziché togliertene.
- ti diverti a darmi contro?
- contro? io non sono contro nessuno, semmai sono contro alcune cose di me.
- no, tu mi contraddici.
- l’estate non è solo una stagione.
- non è neanche uno stato d’animo. è estate e basta. e fa un fottuto caldo che non sopporto più!
- l’inverno non è solo una stagione.
- lo è, invece.
- è buio, è freddo, non dà speranza. come la tristezza, che è sì utile, quando termina. falla finire.

e accarezzò quella parte di sé, la abbracciò, la perdonò, si arrese al fatto che fosse così.
e la nutrì di luce.

bi, "dialoghi tra me e me"



[l'abruzzo e il giallo dell'estate]

giovedì 12 luglio 2012

forse dovrei fare come vittorio alfieri: si legava alla sedia, davanti allo scrittoio, per resistere allo sgomento quand’era ispirato.




forse dovrei fare come vittorio alfieri: si legava alla sedia, davanti allo scrittoio, per resistere allo sgomento quand’era ispirato.
è che a mezzogiorno e un quarto mi sono accorta che l’orologio nel mio polso era fermo.
perché alle sette e mezzo il corpo era assente.
la mente faceva i conti matematici delle pochissime ore dormite.
lo spirito vagava nella rielaborazione di una verità che mi era stata rivelata la sera prima e che recita più o meno così: dormire sotto la mia libreria piena di libri, della storia della mia famiglia, dei cimeli dei miei viaggi, dei libri di scuola custoditi gelosamente come sapere universale e universalmente valido per sempre, enciclopedie di animali di musica di medicina e di tutto, il violino di mio padre, una lampada ad olio alimentata a lampadina, lettere di quand’ero adolescente, cartoline dagli anni ottanta in poi ricevute dai miei amici, la macchinina verde tonda e pesante che mi hanno regalato ad agosto dell’ottanta, pesa su di me.
mi schiaccia come la gravità farebbe con una formica sovrastata da una ciotola di cibo per gatti pieno, capito come?
sono anni che vivo sotto il peso della mia storia e di un sapere che vuole che io sappia e che in fondo so.
comunque, rassegnata all’assenza di cui è fatta la mia presenza in questo mondo, a mezzogiorno e un quarto ho messo l’orologio nell’ora esatta per questo meridiano e ho capito una cosa: sì, io sono, ma non ci sono.
vivo un periodo di sospensione, che sembra fatto di una sequenza illogica di tanti piccoli attimi e che costituisce un tempo che passa inosservato, cioè lo ignoro non osservandolo. perché sì.
perché serve pure questo, stare sospesi, per poi tornare giù e ritrovare terra e radici.
è che purtroppo non sono un albero, perché lui sì che sa sempre come si fa.
a rinnovarsi, ad accogliere la pioggia con un sorriso stiracchiando ben bene tutti i rami e rametti, a farsi proteggere dalla neve che conserva in silenzio e con certezza, a bere ingoiando la terra ricca di vita, a respirare di notte per poi donare respiro di giorno.
mi ricordo che da piccola mangiavo i fiori del gelsomino.
mi tuffavo nel loro profumo pungente e avvolgente e poi quell’odore volevo divorarlo, a occhi socchiusi e con due impercettibili grinze sul naso.
staccavo quel fiore gentile e sottile dal suo ramo, chiedendogli scusa per quella sfacciataggine e confessandogli la colpa del mio egoismo, e ne succhiavo il nettare chiaro e dolce, sfidando la morte senza paura.
nessuno mi aveva spiegato se fosse velenoso o no.
ero assetata di natura, di verde, di fiori, di vita e me la prendevo così, senza chiedere il permesso a nessuno e in quieto segreto.
poi un giorno stavo scendendo verso casa di mia zia, il sole era alto e cuoceva le coscette magre dei miei sei o sette anni e mi fermai a contemplare un’ape.
era bellissima: se ne stava seduta a godersi quel sole a mille metri, nuda, piena di colori e di luce.
senza timore mi soffermai per più di qualche minuto ad osservarne quella regalità, seduta sui miei talloni e con le mani poggiate sulle ginocchia.
me ne andai felice, era stato un bell’incontro per me.
e in tutta risposta lei mi prese alla sprovvista, facendo sprofondare il suo pungiglione nella mia coscia sinistra.
fu la prima volta e fu dolorosissima.
fu doloroso restare bruciati da un tradimento: io me ne innamorai e lei mi ferì una gamba, facendola pulsare di dolore e d’angoscia.
ma andò bene così, perché mia mamma mi schiacciò forte e decisa la sua fede nuziale sul buco di quel pizzico e dopo un po’ dimenticai che un’ape può far male, nonostante la sua bellezza.
forse dovrei fare un po’ più di quello che faceva vittorio alfieri: dovrei restare in silenzio di fronte allo sgomento quando sono ispirata.
se pure il silenzio, che ha sagge cose da dire, sta zitto, perché io ancora non taccio?

bi


“la scrittura non guarisce mai da nulla.
se svolgiamo questo lavoro onestamente, siamo costretti a farci delle domande, sempre.
è impossibile, o almeno rarissimo, trovare risposte definitive alle cose.
c’è sempre un’apertura, un’altra cosa per noi.
non provo mai una sensazione di chiusura.
le cose non sono mai finite e ogni storia è una storia che continua.”

paul auster